Tematiche etico-sociali

La scomparsa del Magistrato Paolo Adinolfi, per molti sconosciuta

Da sabato 2 luglio 1994, non si hanno notizie di lui

Roma, 24 ottobre 2021 – “La scomparsa di Adinolfi”. Il libro è stato scritto dal giornalista Alvaro Fiorucci e dallo scrittore Raffaele Guadagno, ed è edito da Castelvecchi nella collana Nodi.

Il tema scottante: la scomparsa del Magistrato romano Paolo Adinolfi.

Sembra ieri ma sono trascorsi circa ventisette anni da quel sabato 2 luglio 1994. Da allora di Paolo Adinolfi non si è saputo più nulla.

Il libro riaccende i riflettori su un caso inquietante in cui gli interessi dei poteri forti, strani figuri probabilmente legati ai Servizi Segreti deviati, le note vicende di Tangentopoli, personaggi della famigerata banda della Magliana, si raggruppano fra loro per formare una matassa di cui ancora non si trova il bandolo.

Eppure Adinolfi è uno di quei magistrati «anonimi» che ha sempre fatto il suo dovere di «servitore dello Stato».

Un giudice che ha lavorato senza scendere a compromessi, si è battuto contro malaffare e collusioni.

«Una pulizia morale pagata con la vita». La verità su questa scomparsa? «Da ricercare nel suo lavoro», dice il figlio. Probabile che, nonostante il tempo trascorso, ci sia ancora, vivo, qualcuno «che sa e che non ha mai parlato». Possibile un volontario allontanamento dalla vita familiare e sociale per scomparire per ignoti motivi?

Un omicidio, appare più probabile.

Iniziamo a leggere parti dell’interessante libro.

– da pag.9.“” Tante piste nessuna traccia. Il 1994 è un anno di fatti stranianti. Le bombe di Cosa Nostra diventata stragista per volontà di Totò Riina: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Roma, Firenze. Implodono sotto i colpi di Mani Pulite i partiti tradizionali, ne nascono di nuovi dalle prospettive incerte. Determinanti nelle fortune individuali la forma e l’apparire, l’immagine sostituisce i fatti. Si consolida la politica spettacolo, i talk show cominciano a espropriare le Camere. Un mutamento genetico anche nel costume degli italiani. Lo Stato intanto tratta con Cosa Nostra per fermare la carneficina. Tangentopoli è al processo Cusani; la Dc si divide in Ppi e Ccd; la camorra uccide a Casal di Principe don Giuseppe Diana; scoppia lo scandalo delle tangenti Montedison; a Mogadiscio cadono in un agguato i giornalisti della Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le inchieste sulla malasanità portano in carcere l’ex Ministro Francesco De Lorenzo; a Palermo la Procura della Repubblica chiede il rinvio a giudizio di Giulio Andreotti per complicità mafiose. Il 1994 non registra, però, la storia di un dipendente del Ministero della Giustizia che, in piena estate, esce di casa e non ritorna più. Una storia marginale, insignificante, dimenticata alla svelta, svanita. Come il suo protagonista: Paolo Adinolfi. Un’ombra.””

– da pag.19. “”Laureato in Giurisprudenza, Paolo Adinolfi frequenta la Pontificia Università Gregoriana per essere avvocato della Sacra Rota. Nel 1970, ventisettenne, vince il concorso e comincia la carriera a Milano, in Pretura, occupandosi di ambiente e minori. È tra i Pretori d’assalto, i giudici ragazzini, “quelli che, insomma, hanno dato una spallata alla vecchia magistratura paludata”, ricorda con un sorriso amaro davanti alle telecamere della terza rete Nicoletta Grimaldi, la moglie. Lei intanto insegnava Diritto ed economia all’Istituto Manzoni per segretarie d’azienda. Dopo sei anni di nuovo a Roma, prima alla nona Sezione Penale, poi per dieci anni alla Fallimentare, in una situazione che, dopo l’entusiasmo degli inizi, negli ultimi tempi “lo aveva cambiato”. Una situazione dalla quale si è allontanato sbattendo la porta e firmando una richiesta di trasferimento in Corte d’Appello, dove lavorerà per pochissimo tempo prima di scomparire, spinto in chissà quale anfratto dei misteri italiani.””

– da pag.24. “”Il cassiere e gli zingari. Il 24 agosto, un mercoledì, sul quotidiano “l’Indipendente” esce un articolo a firma di Gian Paolo Pellizzaro. Al nome del giudice scomparso ne viene associato per la prima volta un altro che tornerà spesso in questa vicenda: quello di Enrico Nicoletti. L’uomo, noto per essere considerato il cassiere della Banda della Magliana, è però solamente una comparsa. Il cuore dell’articolo è un altro, inquietante.

Dichiarazione del giornalista Pellizzaro nell’intervista a Mario Ragusa. Il giornalista ipotizza una pista: Adinolfi sarebbe stato fatto fuori dagli zingari del Villaggio Olimpico, quelli capeggiati dai Casamonica, una famiglia di origini sinti molto allargata, organizzata come un clan mafioso; affari con l’usura, il gioco d’azzardo e la droga. Il clan che detta legge in alcune zone della capitale e sul litorale, verso Ostia. Il giornalista ha annotato le impressioni di un Magistrato della IV Sezione Civile della Corte d’Appello, Mario Ragusa, che gli aveva riferito voci raccolte per i corridoi del Palazzo di Giustizia, secondo le quali poco prima di sparire era stato visto proprio all’interno del parcheggio lungo l’ansa del Tevere, impegnato in una discussione, con un gruppo di nomadi. Una discussione tanto accesa da sembrare una lite. Un episodio sviluppato in pagina attraverso una concatenazione di situazioni molto suggestive: il diverbio surriscaldato è avvenuto nel posteggio utilizzato praticamente ogni giorno. Il clan dei Casamonica, se di loro si tratta, lavora per il cassiere della Banda della Magliana quando deve recuperare i crediti della sua attività di strozzino. E Paolo Adinolfi aveva curato i fallimenti di società nelle quali Enrico Nicoletti aveva forti interessi.

Commenta Nicoletta Grimaldi, la moglie: “Questa storia è per me una novità. Però non mi stupisce che mio marito possa essere stato preso di petto dagli zingari, poiché detesta le loro violenze e le angherie sui bambini”. E qui finisce un’ipotesi che non è mai stata una pista. Pellizzaro conferma l’intervista e precisa però che il collegamento zingari-Casamonica-Nicoletti è suo: un’ipotesi giornalistica. Mario Ragusa nega la paternità delle dichiarazioni relative “a un coinvolgimento di un clan di zingari”. Il Presidente di sezione Giacomo de Tommaso certifica la possibile origine dell’equivoco: “Tra le voci che circolavano nell’ambiente ce n’era una secondo cui egli (Adinolfi) era un tipo scrupoloso che sarebbe stato capace di multare un vigile solo per il fatto di consentire a degli zingarelli di chiedere l’elemosina. Ma questa voce, probabilmente originatasi in base alle dichiarazioni rese dalla signora subito dopo la scomparsa del coniuge, non significa affatto che l’episodio sia realmente accaduto”. Insomma, niente zingari per i magistrati che dicono di aver raccolto delle voci che, come tali, possono tranquillamente essere tralasciate.

Dopo quello degli zingari, un altro scenario. Angelo Demarcus, 55 anni, da Pattada, Sassari, è un ex capitano di fregata della Marina Militare che un giorno del 1982 entra a far parte della cooperativa San Placido che ha in animo di costruire ventiquattro villette a schiera. Una sarebbe stata sua per 90 milioni di lire. Come altri dodici soci paga l’anticipo. Ma le cose non vanno bene, cambiano gli amministratori, i soci fondatori vengono estromessi. C’è tempo, gli dicono, per riavere il dovuto. Ma i soldi non si vedono e Demarcus non riesce ad avere notizie. Scopre che quel consorzio che si era preso la cooperativa San Placido aveva incorporato in poco tempo 80 imprese di varia caratura. Denuncia tutto alla Procura della Repubblica di Roma, perché è convinto che in un elenco che gli hanno passato ci siano almeno 200 nominativi fasulli, presi dalla guida del telefono. Da quel momento diventa un assiduo frequentatore di cancellerie e archivi per star dietro alla sua pratica. Scartabellando tra i fascicoli che in qualche modo lo riguardano, si imbatte nei nomi di Flavio Carboni e di Enrico Nicoletti. Flavio Carboni, classe 1936, imperscrutabile imprenditore sardo, è un uomo dai mille segreti e dalle mille amicizie: dal faccendiere Francesco Pazienza, ex agente del servizio segreto militare, implicato in più inchieste sugli anni bui dello stragismo nero e con una condanna a tre anni per il crack del Banco Ambrosiano, a Licio Gelli, Gran Maestro della P2, al centro delle trame più oscure ed eversive, dal Piano di Rinascita Nazionale alla strage di Bologna per la quale dall’11 febbraio 2020 è elencato tra i mandanti. Flavio Carboni ha avuto una condanna definitiva per il crack della banca di Roberto Calvi, otto anni e sei mesi, e poi una serie di assoluzioni: dall’accusa di concorso in omicidio del vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone (Milano 27 aprile 1982, il killer è Danilo Abbruciati, della Banda della Magliana, che fallisce nel suo intento e viene ucciso da un metronotte di guardia all’ingresso dell’istituto lombardo). Quindi, ancora, scagionato dalla ricettazione della borsa con i segreti di Roberto Calvi, sparita nelle nebbie di quella tragica notte londinese. Assolto infine dall’imputazione di falso e truffa ai danni del Banco di Napoli. Arresti e scarcerazioni, accuse e proscioglimenti, fino a poco tempo fa, nel 2017, quando viene indagato ad Arezzo per la bancarotta della Banca Etruria. Flavio Carboni è lì, nel dossier di Demarcus, con Enrico Nicoletti, il finanziere in rapporti d’affari con la criminalità romana e la mafia palermitana, perché a loro fa capo una società che ne controlla altre centoventi.
Demarcus afferma che non può non pensare alla scomparsa di Paolo Adinolfi, quando sfoglia le pagine dove sono elencate realtà finanziarie di peso, tra le altre Società Sofint e Fiscom Spa. Per la Sofint di Flavio Carboni, secondo l’ex uomo di mare, sarebbero transitati anche i soldi di Domenico Mimmo Balducci, commerciante di elettrodomestici, uomo della Banda della Magliana in affari con Pippo Calò, avanguardia romana della mafia siciliana. Domenico Balducci è stato ammazzato in un regolamento di conti nel 1981. “Memmo er Cravattaro”, così lo chiamavano nell’ambiente, aveva sgarrato: una cresta da 150 milioni sull’incasso di una grossa speculazione edilizia. Il destinatario era Pippo Calò che l’ha fatto punire da Danilo Abbruciati, Enrico De Pedis e Raffaele Pernasetti la sera del 16 ottobre. La rovina della finanziaria romana, nella quale anche Enrico Nicoletti preserverebbe diversi interessi, è uno degli ultimi lavori portati a termine da Adinolfi in fallimentare.””

– da pag.141.“”Intervista al figlio Lorenzo Adinolfi.
QUALI SONO GLI ASPETTI PIÙ SIGNIFICATIVI DA TENERE PRESENTE NELLA RICERCA DELLA VERITÀ SULLA SORTE DI SUO PADRE? È proprio la mancanza di linearità nei comportamenti di un uomo che è sempre stato lineare, che ci fa pensare ad una regia occulta e volutamente confusa. La verità sulla scomparsa andava cercata da subito nel suo lavoro, tenuto conto dei nebbiosi comportamenti dei colleghi e dell’esame limpido e rigoroso delle pratiche seguite, in particolare alla Sezione Fallimentare. Molti filoni dell’indagine, tuttavia sono stati appena sfiorati. Come confermato dalla magistratura inquirente, solo un’organizzazione criminale poteva mettere a punto una scomparsa che doveva apparire, ad arte, come volontaria. Credo che a distanza di ventisei anni e con le attuali tecnologie il lavoro condotto dalla Procura di Perugia negli anni novanta possa essere approfondito e sviluppato in molti degli ambiti già affrontati. Proprio perché le prime indagini concrete sono state avviate a due anni dalla scomparsa, il tempo è sempre stato un elemento relativo e vi sono stati aspetti che necessitano di essere messi in ordine. Per fare luce sarebbe poi fondamentale che chi sa, chi ha accompagnato Paolo Adinolfi negli ultimi istanti della sua vita, abbia uno scrupolo di coscienza e ci consenta di fare luce sull’accaduto. A distanza di anni i famigliari, gli inquirenti, i giornalisti, tutti coloro che si sono interessati al caso hanno riconosciuto le evidenti incongruenze di quel giorno: come fa una città a inghiottire un uomo di cinquantadue anni in un sabato caldissimo di luglio senza che nessuno si accorga di nulla? Partendo da questo assunto le carte dell’indagine, ma soprattutto la consapevolezza sulla vicenda acquisita dalla Magistratura inquirente di quegli anni, rappresenterebbero un punto di partenza da cui ripartire per chiunque ne avesse la possibilità. La domanda andrebbe posta ai Magistrati e alle Istituzioni che hanno colpevolmente dimenticato ritenendo, raramente con imbarazzo, che non fosse poi così rilevante far luce sulla scomparsa di un “uomo dello Stato”. Del resto, l’indifferenza dei Magistrati e degli organismi della categoria non va certo spiegata, come mi fu rappresentato anni fa dai vertici dell’ANM nel fatto che, finché non si trova il corpo non si può prendere posizione alcuna, ma piuttosto dal fatto che il Dottor Adinolfi già da tempo si era cancellato dall’Associazione Nazionale Magistrati (e solo oggi è più semplice capire il perché) e aveva tolto il saluto a colleghi verso i quali non nutriva alcuna stima.””
CHIEDETE GIUSTIZIA: È IL VOSTRO APPELLO. A CHI È RIVOLTO?“ ”A chi sa e non parla da troppi anni. Conoscere il luogo dove si trova il corpo di papà sarebbe un modo per trovare un po’ di pace. Per portargli un fiore e per poterlo piangere degnamente dopo tanti anni di sofferenza. Noi siamo pronti a tutto per sapere (con la sua famiglia abbiamo attivato una mail per avere notizie: paolo2luglio1994@gmail.com ) e imploro chiunque sappia qualcosa su quanto accaduto di prendere contatti con noi per aiutarci a trovare la verità.””

Sin qui il libro.

Ora, per finire, integrazioni, valutazioni e conclusione.

Sulle tragiche vicende dei Magistrati da anni scriviamo per onorarli per il rispetto di chi ha perso la vita per lo Stato.

Sappiamo che le Famiglie spesso riaccendono il ricordo prendendo giustamente posizioni in difesa dei loro Cari.

Voglio aggiungere del grande Vittorio Occorsio sul quale recentemente ho scritto su questa testata di cui è Direttore Salvatore Veltri, avendo letto un interessante libro del figlio dedicato al nipote del grande Magistrato (https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/eugenio-occorsio-storia-di-mio-padre-e-di-tuo-nonno-non-dimenticare-non-odiare-51662/).

Proseguiamo ricordando che anni addietro, nel 2016,la Scuola della Magistratura decise di annullare l’incontro, nell’ambito di un corso di formazione per i Giudici, al quale avrebbero dovuto partecipare gli ex terroristi Adriana Faranda e Franco Bonisoli, a seguito della grandinata di critiche giunte da figli delle vittime del terrorismo, ma anche dagli stessi Magistrati. La polemica era diventata forte dopo l’intervento di Alessandra Galli, figlia del Giudice Guido ucciso da Prima Linea: “È inaccettabile il dialogo in una sede istituzionale come questa con chi ha ucciso per sovvertire lo Stato e la Costituzione alla quale, come Magistrati, hanno giurato fedeltà”. Dopo Alessandra Galli, anche Ambra Minervini, figlia del Magistrato Girolamo Minervini, ucciso dalle BR nel 1980, ha definito “oltraggioso” per la memoria del Padre che fosse invitata la Faranda peraltro vicino al carcere di Sollicciano (FI), che si trova lungo la strada intitolata proprio a Minervini e un’altra vicina che porta il nome di Girolamo Tartaglione (ucciso dalle BR nell’ottobre 1978).

Ora, dopo aver brevemente fatto riferimento alle polemiche citate dalla stampa nazionale, quali liberi Cittadini e liberi Pensatori ci chiediamo cosa gli ex BR avrebbero potuto insegnare ai Magistrati della Repubblica; peraltro due dissociati e non pentiti, i quali proprio per questo hanno avuto gli sconti di pena senza fare nomi di complici nelle loro ribalderie criminal-terroristiche.

Certo, i tempi cambiano e tutto trova una ragione nel fatto che oggi predominano criteri di valutazione diversi da quelli del passato certamente migliori e seri.

A questo punto ci chiediamo perché non sono stati anche invitati a tenere dotte conferenze i Capi Mafia Totò Riina, Provenzano e Matteo Messina Denaro, magari sospendendo a quest’ultimo per l’esigenza in parola i provvedimenti di carcerazione e cattura che pendono sul suo conto da decenni?

Terrorismo si; Mafia no? Perché? Figuriamoci ora se sui banchi della Scuola si fosse trovato il Magistrato Bruno Caccia, un esempio per tutti i Giudici della Repubblica per rigore morale e serietà, per alto senso dello Stato, per sublime dedizione al dovere. Il lavoro di Caccia a Torino fece vacillare le basi del dominio ‘ndranghetista tra Torino e provincia tanto che il 26 giugno 1983 fu ucciso.

E lo stesso diciamo limitandoci a citare solo i Giudici trucidati nel 1980 che fu davvero un Annus Horribilis; fu infatti l’anno del DC9 dell’Itavia precipitato a Ustica e della strage alla Stazione di Bologna; erano gli Anni di Piombo che lasciarono sulle strade i corpi senza vita di fedeli Servitori dello Stato colpiti a morte da terrorismi e mafie.

Ricordiamoli, quindi, i Magistrati Caduti sul Fronte del Dovere nel 1980, con rispetto e riconoscenza: questi i Loro nomi: Magistrato Guido Galli- Milano (prima citato); Vittorio Bachelet, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura -Roma; Nicola Giacumbi, Procuratore della Repubblica di Salerno; Girolamo Minervini, Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena del Ministero di Giustizia- Roma (prima citato); Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma Mario Amato; Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa. Vogliamo ovviamente aggiungere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: due vite intrecciate, uno stesso destino, affrontato a testa alta fino al 1992, l’anno più nero per l’antimafia e per l’Italia.

Concludendo, in questo strano mondo, in tutti questi anni di povertà culturale e politica mediocre e modesta ma ricca di narcisismo e “pompa” che fruttano fior di miliardi grazie ad agenzie di malaffare, Banche “libere” che creano addirittura crisi finanziarie, rendiamo certamente omaggio a tutto l’Ordine Giudiziario in servizio che assicura ordine e tutela dei cittadini, essendo l’unico presidio di legalità esistente; piaccia o non piaccia, è così!

Desideriamo infine, nell’onorare i Magistrati Caduti per l’affermazione della Legge, citati e non, ricordare il grande drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che scrisse: “Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi. Ma ancora più sfortunato il popolo che ne disperde l’esempio e l’insegnamento…”.

Sì, proprio su questa strada è avviata l’Italia, da lungo tempo!

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