Un uomo chiamato cavallo.
Pellicola rivoluzionaria sulla narrazione dei nativi americani.

Roma, 1 maggio 2025.
Esce oggi, cinquantacinque anni fa, negli Stati Uniti, un film destinato a far epoca per i suoi contenuti rivoluzionari rispetto alle narrazioni dell’epoca: Un uomo chiamato cavallo.
Diretto da Elliot Silverstein, da un racconto di Dorothy M. Johnson, è la storia di un aristocratico inglese a caccia nell’inesplorato west americano nel 1820.
John Morgan è un tipo eccentrico e si trova nel territorio del Sud Dakota insieme a tre uomini che lo supportano nelle sue esplorazioni.
Il territorio è impervio e abitato dagli indiani Sioux della tribù di Mano Gialla che non hanno mai visto un uomo bianco, di carnagione molto chiara, e per di più biondo di capelli.
Morgan viene catturato, i suoi uomini uccisi e scalpati, portato nell’accampamento della tribù, completamente nudo, affidato alla madre del capo Mano Gialla che lo sfrutta come cavallo da soma.
L’inglese tenta più volte di fuggire dal villaggio dei Sioux, sempre ripreso, deriso e utilizzato per i lavori più pesanti.
L’unico motivo di resistenza a tale situazione è la vicinanza di Batise un sangue misto di origini francesi, catturato anni prima, che parla la stessa lingua di Morgan, che si finge un po’ pazzoide sapendo che gli indiani rispettano tali personaggi.
Batise con questo atteggiamento evita di andare in battaglia, di lavorare pesantemente, bighellonando nell’accampamento in mezzo alle donne e ai bambini.
Nella lingua dei nativi “Shunka Wakan”, che vuol dire cavallo, è il nome attribuito a Morgan che nel tempo comincia a capire gli usi, la cultura, dei Sioux.
Un giorno il villaggio Sioux viene allertato dalle sentinelle appostate che segnalano un pericolo proveniente da guerrieri Shoshone, nemici della tribù di Mano Gialla.
Morgan coglie al volo l’occasione ed evita il pericolo gettandosi contro due guerrieri nemici, uccidendoli e scalpandoli alla maniera indiana.
E’ la svolta per l’inglese che conquista così la piena fiducia di Mano Gialla a cui chiede di poter sposare la sorella, Tortora Bianca, offrendo in cambio i cavalli predati agli Shoshone.
Morgan però deve sottostare alla prova del dolore, un’usanza della cultura Sioux, che supera, conquistando così la piena integrazione con i nativi oltre a poter sposare Tortora Bianca.
Ormai “Shunka Wakan” rimane solo come nome di battaglia nello scorrere della vita di Morgan nell’accampamento, che qualche tempo dopo viene attaccato in forze dagli Shoshone.
La posta sono i cavalli e le donne e i Sioux si difendono con Morgan, che attua una tattica di stampo militare contenendo l’effetto sorpresa degli Shoshone.
La battaglia è vinta, gli avversari sbaragliati, ma il bilancio nell’accampamento Sioux è drammatico con le morti di Mano Gialla, Batise e Tortora Bianca in procinto di partorire un figlio.
Tremendo il dolore di Morgan che rende l’ultimo saluto a Tortora Bianca e abbandona l’accampamento facendo ritorno in Patria.
Il regista Elliot Silverstein, maggiormente noto in carriera più per produzioni televisive, confeziona un western crepuscolare che, come detto, segna uno spartiacque nel racconto cinematografico dei nativi americani.
Le riprese iniziano a fine ottobre del 1968 e vengono svolte in territorio messicano, nella regione della Sierra Mountain, vicino Durango, per evitare il rigido inverno del Sud Dakota, territorio storico dei Sioux.
Gli scenografi ricostruiscono al meglio centinaia di tepee, costumi e parrucche appositamente progettate e fanno arrivare, per unirsi al cast, un centinaio di nativi appartenenti alla riserva di Rosebud nel Sud Dakota.
I dialoghi sono recitati in lakotan, lingua dei nativi, per l’ottanta percento come pure sono girate il più realisticamente possibile scene di torture e nudità tipiche della cultura Sioux.
A Man Called Horse, titolo originale, è il primo capostipite di un diverso racconto della cultura indiana non più sotto lo stereotipo del “cow boy bianco buono” e del “pellerossa indiano cattivo”.
Nello stesso anno escono in sequenza Soldato blu e Il piccolo grande uomo, a sdoganare definitivamente una certa produzione superata che vivrà il suo restyling con la filmografia di Sam Peckinpah e Sergio Leone.
Protagonista assoluto Richard Harris, nel ruolo dell’aristocratico Morgan, che gira le scene più a rischio senza l’ausilio della controfigura.
Harris, classe di ferro 1930 come Clint Eastwood e Gene Hackman, nella versione italiana è magistralmente doppiato da Gigi Proietti.
Manu Tupou è Mano Gialla, Jean Gascon è Batise, Corinna Tsopei è Tortora Bianca.
Menzione particolare per Judith Anderson, nota al grande pubblico per aver partecipato a produzioni come Rebecca la prima moglie del 1940 e La gatta sul tetto che scotta del 1958, per la parte della madre di Mano Gialla.
FOTO: Benito Movie Poster.