Il fascino ribelle di Steve McQueen.
Ricordo di uno dei divi più iconici della cinematografia mondiale.
Roma, 7 novembre 2025.
Sono quarantacinque anni, oggi, che ci manca una delle stelle più fulgide della cinematografia mondiale: Steve McQueen.
Certo avrebbe avuto novantasei anni, essendo un giovanotto del 1930, però perché non immaginarselo ancora in gamba come il suo coetaneo Clint Eastwood?
Invece McQueen ha salutato la compagnia ad appena cinquant’anni stroncato da un “mesotelioma pleurico”, un tumore associato all’esposizione all’amianto, che provò a curare in Messico attraverso cure sperimentali non riconosciute a livello scientifico.
Personaggio complesso, ruvido, viscerale, cresciuto tra risse, piccoli furti, detenzione, abbandonato ben presto dai genitori e tirato su da uno zio nel Missouri.
Sin dal periodo di formazione presso l’Actors Studio, McQueen si distinse per i suoi atteggiamenti ribelli e spericolati che però non gli impedirono, dopo sei pellicole di rodaggio, di firmare la sua prima grande interpretazione ne “I magnifici sette” nel 1960.
In quegli anni la concorrenza, nelle varie produzioni, era di livello eccelso e McQueen cominciò a dare i punti a gente del calibro di Marlon Brando, Sean Connery, Paul Newman.
La consacrazione avvenne nel 1963 con “La grande fuga”, film ambientato durante la seconda guerra mondiale in un campo di concentramento tedesco con prigionieri di varie nazionalità.
McQueen, a dispetto di minori battute e scene girate rispetto alle altre stelle del cast, s’inventò il singolare personaggio del militare americano fissato con un guantone e una palla da baseball e spericolato pilota di moto.
Indimenticabile la scena di quando tentò la fuga dal campo a bordo di una Triumph TR5 Trophy, cercando di saltare con la stessa moto una delimitazione da un fitto filo spinato.
E’ un crescendo rossiniano la carriera di McQueen quando nel 1965 recita in “Cincinnati Kid”, celeberrima la partita a poker con un altrettanto fantastico Edward G. Robinson, di seguito “Quelli della San Pablo” del 1966, unica nomination all’Oscar, in una sentita interpretazione di un marinaio afflitto da conflitti interiori.
Ancora due pellicole ne sancirono il definitivo salto di qualità, attraverso la scelta di personaggi non convenzionali, come “Il caso Thomas Crown” e “Bullitt” girate nel 1968.
In quest’ultimo film ci fu la certificazione del personaggio McQueen, un uomo di grande personalità, poco accomodante, ribelle, che rifiutò l’uso della controfigura nell’inseguimento senza effetti speciali a bordo della carismatica Ford Mustang GT 390.
Di rilievo il sodalizio con un altro soggetto ribelle e fuori dagli schemi come il regista Sam Peckinpah, che lo diresse nel 1972 in “L’ultimo buscadero” e nello scoppiettante poliziesco “Getaway!”.
E poi veniamo forse alla migliore performance della sua carriera quando nel 1973 interpretò “Papillon”, mettendo in evidenza, fisicamente ed emotivamente, i tormenti dell’anima di Henri Charrière, galeotto realmente esistito.
I suoi ultimi film, “Tom Horn” e “Il cacciatore di taglie” del 1980, girati sulle sue residue forze, sono carichi di nostalgia per una fine imminente di lì a qualche mese.
Steve McQueen amava visceralmente sia le due che le quattro ruote, tanto da ritenersi più pilota che non attore.
Nelle sue trenta pellicole quella del 1971, “Le 24 ore di Le Mans”, fu un flop al botteghino con ripercussioni economiche importanti per McQueen e nonostante ciò il film rappresentò, all’epoca, il meglio girato relativamente alle corse automobilistiche.
Naturalmente McQueen lo interpretò, su una Porsche 917K, senza controfigure…
Il mito Steve McQueen resiste tuttora a novantacinque anni dalla nascita e a quarantacinque dalla scomparsa.
Un’eredità forte, un solco preciso, per gli occhi azzurri più belli di Hollywood.
FOTO: Steve McQueen biografia, peliculas y curiosidades del actor.




