Spettacolo

Ettore Scola. Un’umanità disegnata nei suoi paradossi e contraddizioni

c eravamo tanto amati locandinaUna giornata tristemente particolare, il giorno che se ne va un grande regista che ha lasciato un segno preciso nella descrizione del sociale.

Roma, 21 gennaio – Il giorno in cui si riflette se e quanto dei suoi personaggi faccia parte di noi, quanto noi stessi siamo stati ripresi nelle sue immagini. La nostra vita, la nostra storia, il nostro Paese, la nostra famiglia, i nostri figli, i nostri amici, la nostra scuola, i nostri genitori. Il nostro lavoro.
Guardare un film di Ettore Scola è come se ci aggiustassimo allo specchio per guardarci, scrutarci, rimirarci, interrogarci, chiederci più di una volta se somigliamo a quell’uomo, a quella donna, a quella “gente” che vive di vita per sempre, il sempre di tutti i giorni che si ripeteranno identici nella pellicola e che ci domandano così se e
quanto possano essere smisuratamente ripetitive anche le nostre giornate. Quando i giorni attaccano noi stessi come molluschi ad abitudini stereotipate, tanto da farci divenire non più singolari realtà, ma dei “tipi” ben precisi da identificare. Come ci vedono gli altri, come si aspettano che siamo, come ci vediamo, alla fine, noi stessi. Secondo quanto detta o impone il gioco dei ruoli che si impadronisce di noi, con spesso la nostra acquiescenza, con la consapevolezza intrisa, consumata di mancanza di reazione che ci fascia quasi burattini ingessati da noi stessi, con un margine di libertà simile a quella dei pupi di un palcoscenico stretto. La lezione di Pirandello, figlia ribelle della tragedia greca e della commedia latina, del teatro tutto, da cui si dipana il cinema del ‘900. Che ruba dalle mani degli dei il destino degli uomini e lo pone nella rete delle pulsioni e più ancora nella ragnatela della società.
Scola ne ha assorbito i temi, li ha resi propri, individuabili, duramente o più sommessamente riconoscibili, nel sociale amaro, grottescamente ridicolo, sconsolantemente piatto, assorbito dal pavimento del palcoscenico, dai suoi margini, che ne incolla le scene ai quadri di un’umanità scolpita.

E c’è, nei suoi film, che lo contraddistingue, il guizzo che improvvisamente sposta l’attenzione.

Il lucido, perverso, ‘schiaffone’ di Vittorio Gasmann ad Aldo Fabrizi nel “C’eravamo tanto amati” (1974). Una vita che cambia con le contraddizioni del pressapochismo, un mondo cialtrone nella inadeguatezza alle novità da affrontare, la scelta assente fra la vita vera e la maniera del sopravvivere, la sgomitata, se riesce, coprendosi anche con una foglia.
Il “balletto” dei sentimenti, capacità dell’anima riemersa pur raccogliendo lenzuola stese ad asciugare, nelle terrazze di un palazzo tipico degli Anni del Fascio, quasi disabitato il 6 maggio 1938, giorno in cui a Roma quasi tutti assistevano alla visita di Hitler: “Una giornata particolare” (1977). Due esclusi per motivi diversi si incontrano e vedono emergere emozioni profondamente nascoste. Che si accendono nella musica di Armando Trovajoli. “Una giornata particolare”, opera emblematica, pluripremiata,  con Sofia Loren e Marcello Mastroianni, grandissimi, inarrivabili e a nostro avviso di fronte a qualsiasi Oscar che per tale film, pur con due Nomination  – migliore attore  protagonista e miglior film straniero (Italia) –  per Mastroianni e Scola, non fu, invece, dato.
Lei, eroina di una vita scialba ma ossequiosa, dove i buoni sentimenti ci sono e non ci sono, che è lo stesso, perché nessuno li chiede. Dove tutto è presupposto, dove tutto non è salvo, fuor che l’onore apparente, dove un uomo e una donna, marito sciattamente fedifrago e moglie ligiamente assente si sfiorano o neppure, nei sentimenti, in una solidissima, apparente, famiglia esemplare con sei figli. E un altro lui “non lui”, mandato via per questo dalla radio di Stato, scisso, fra una testa attenta nel far girare le proprie idee, rischiose nei giorni non liberi, e un cuore ed un povero corpo a cui una società incolore chiede, con toni superficialmente decisi, forse con finalità di soggettive buone intenzioni, forse con sadiche delusioni, di non domandarsi mai chi è, ma di omologarsi obbligatoriamente, nel corpo e nell’anima. Piegarsi, piagarsi di un
senso comune che comune non è,  se non aiuta, se non consente di poter cercare il proprio equilibrio. E si apre, per una frazione di giornata, poche ma lunghissime ore che devono poi essere messe da parte per il resto, per quel che resta della vita, uno sprazzo di cielo, appunto, nel poetico terrazzone con la biancheria sciorinata che assume vita nuova e rende nuove le ore dei protagonisti.  I due si aiutano:  piegare le lenzuola, cambiare una lampadina. E tramite di due anime sospese, il presupposto del loro incontro, è un merlo che vola da una gabbia domestica verso l’azzurro e trova nel lui “non lui”  chi fornisce a lei il coraggio di chiedere un aiuto per riprenderlo. Lei resterà in quella vita, lui, già se lo aspettava, viene arrestato e portato al confino.
Cosa si perda e cosa si guadagni nell’incontro del margine in cui le due coscienze erano tenute, sarà lo spettatore ad identificarlo, se vuole, a deciderlo, ma quel che appare inequivocabilmente è la fotografia densa ma pietosa per lo sconquasso del cuore dei protagonisti e il magistrale sberleffo verso la finta, arrogante, sicurezza altrui, che fa da sfondo.
Con i suoi amici, sempre nel ’77, Scola firma una sintesi, una diagnosi sociale della regia grottesco-satirica, I nuovi mostri (Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola).
Dedito al disegno fin da bambino, Scola, sedicenne, coglie la realtà con le vignette sul satirico Marc’Aurelio. Pur non seguendo veri e propri storyboard, con l’elenco delle
inquadrature come d’abitudine in America, il regista predisponeva suoi disegni per chiarire le scene del film da girare. La società disegnata prendeva pian piano la mano al disegnatore, si rendeva più indipendente, tridimensionale, e nasceva il film.
Nato a Trevico, in provincia di Avellino, il 10 maggio 1931, amava i borghi e fu molto lieto, ricordando il diario di una sua zia, del Premio Città del Diario, assegnatogli come singolare attestato popolare da Pieve Santo Stefano: dove i diari si raccolgono e dove un museo li celebra quale fonte insostituibile di memoria. Riconoscimento della lunga descrizione dell’Italia con le sceneggiature dagli anni ’50 e con le regie (primo film diretto “Parliamo di donne” del ’64 e ultimo “Che strano chiamarsi Federico”, del 2013, per i venti anni dalla morte di Fellini, amico di sempre).
In “’43-’97” del 2011 e in “Gente di Roma” del 2003 il racconto della deportazione romana del 16 ottobre del ’43 e la speranza che il ricordo, l’attenzione per quei temi non vadano perduti, non scemino con il finire dei superstiti e neppure si sperdano, oggi, le risorse
che in ogni tempo la coscienza sa trovare rispetto alle domande e alle
necessità epocali.
Ettore Scola, figlio di un medico e di una madre che, dedita completamente alla famiglia come si usava, avrebbe amato anchel’insegnamento delle materie letterarie, si iscrisse a medicina e poi fu studente di legge, ma non si laureò per stare dietro alla sua ripresa di un mondo che amò sempre, confidando come pochi nelle nuove generazioni dato che, come diceva, scadute le ideologie come uno yogurt, proprio i giovani troveranno le nuove strade e le vere soluzioni.

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