Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro

Marco Follini 

Roma, 27 aprile 2022 – Un saggio pubblicato nel mese scorso in cui Marco Follini  racconta la parabola umana e politica di Aldo Moro, fin dai primi passi a Roma, dov’era arrivato dalla Puglia grazie alla sua delicata intraprendenza.

Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro” (La Nave di Teseo), è titolo che rimarca la scelta simbolica di Moro che volle per sé un ufficio periferico e austero, in via Savoia: un tentativo di tenersi a prudente distanza dagli affanni del Palazzo, e di marcare una netta differenza tra Lui, il suo modo di vedere la vita e la politica, e quello dei compagni di partito, degli alleati, degli avversari.

L’autore, Marco Follini, Deputato dal 1996 al 2006 e Senatore dal 2006 al 2013, è stato leader dei giovani democristiani, consigliere di amministrazione della Rai, segretario dell’UDC, Vice Presidente del Consiglio.

Tra i suoi libri, ricordiamo Il Tarlo della politica (1988), La DC (2000), La volpe e il leone (2008), Elogio della pazienza (2010), Io voto Shakespeare, La coscienza perduta della politica (2012), La nebbia del potere (2014), Noia, politica e noia della politica (2018) e Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito (2020).

La prefazione è di Marco Damilano (che ha scritto recentemente un bellissimo libro da me trattato in articolo su questa testata su Aldo Moro (https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/marco-damilano-su-aldo-moro-un-atomo-di-verita-45689/).

Iniziamo a leggere parti del libro.

– da pag. 9. “”Marco Follini ha conosciuto bene il personaggio del suo libro. Nel 1969, quando aveva 15 anni, aveva scritto un articolo per una rivista giovanile e lo aveva spedito al suo leader, il suo punto di riferimento: “Chi crede la lotta dell’ex Presidente del Consiglio esaurirsi (e sfociare) in una mera escalation al potere, chi vuole dipingerlo come non consolabile vedova del successo, non ne ha compreso il profondo significato… Soffocare il dibattito è un atto di vigliaccheria e di paura”. La paura tornerà nell’ ultimo scambio di lettere, tra il Presidente e il suo giovane allievo politico. Nel 1978 Follini gli aveva spedito un biglietto di auguri di Natale e la risposta era arrivata più di un mese dopo, a febbraio: “Con la DC convinta e solida, anche il contatto, che si sta rivelando necessario nella situazione attuale con il Partito Comunista non dovrebbe fare tanta paura.” Era il momento in cui stava per compiersi il passaggio più tormentato, l’ingresso dei comunisti nella maggioranza di governo. E quell’accenno era la chiave dell’enigma da sciogliere. In quei giorni la paura riguardava l’economia (l’inflazione), l’ordine pubblico (il terrorismo), le relazioni internazionali (la guerra fredda) e la politica. Avevano paura i democristiani, avevano paura i comunisti.””

– da pag.15“”Via Savoia. Il guscio, innanzitutto. Aveva scelto per sé un ufficio elegante ma non sontuoso nascosto in un quartiere silenzioso e un po’ defilato come a presidiare se non proprio una tranquilla solitudine, quanto meno una prudente distanza dagli affanni, quelli propri e quelli del suo mondo. Quel luogo era abbastanza lontano  da casa e dai palazzi. I colloqui che si svolgevano in quella stanza erano nutriti di silenzi, oltre di parole. Lui domandava molto e ascoltava moltissimo. Raramente commentava. Semmai guardava assorto davanti a sé mentre faceva i conti con le considerazioni altrui. Non squadrava il suo interlocutore per non metterlo alle strette, non guardava nel vuoto per non sembrare distratto, o meglio, cercava nel vuoto un punto verso cui guardare per alimentare un dialogo muto ma a suo modo intenso. La strada su cui si affacciava l’ufficio era anch’essa piuttosto tranquilla e quasi mai trafficata. Gli uomini preposti alla sua sicurezza si affacciavano in quelle stanze muovendosi, perfino loro, con un passo leggero e felpato. Il loro capo (il Grande Maresciallo Oreste Leonardi, con l’Appuntato Domenico Ricci, da me ben conosciuti), più gioviale, si prendeva magari qualche confidenza in più ed esercitava quel suo ruolo protettivo in un modo lievemente più esplicito. Nel suo modo di vestire si poteva rintracciare più di un tratto della sua personalità appunto abbottonata, per così dire. Riservata, appunto elegante. Non priva di un tratto di vanità. Un giorno, anni dopo, su di una spiaggia del litorale laziale un fotografo lo sorprese in giacca e cravatta. In un certo senso, quella foto, pubblicata da un settimanale e ripresa molte altre volte, avrebbe finito per riassumere in modo iconico la sua filosofia politica. Seria, rigorosa, difficile, a volte scomoda, un tantino solenne, incapace di qualunque concessione alla demagogia, incurante delle tendenze del momento. Una moda sottratta al tempo e ai suoi capricci…””

– da pag. 62. “”Lui era diventato il leader del primo partito italiano, cosa che all’ epoca ne faceva la figura politica più cruciale del Paese. E la politica, in quegli anni, era appunto un luogo affollato da passioni, intelligenze, talenti come non sarebbe più stato. Di lì passavano le nostre controversie più accese, le nostre scelte più importanti, le idee, le persone migliori, come se alla politica, solo alla politica, fosse sempre riservato il posto d’onore. Eppure, proprio quel primato sembrava chiedere in cambio alle figure più talentuose di saper trovare da sé il proprio limite… Il segretario non era un profeta, e forse neppure un capo. Era un po’ un garante, un po’ un notaio. Guidava, ma sempre lungo rotte che venivano tracciate dalle fantasie, dalle pretese, dai fini dei condizionamenti a cui concorrevano una gran quantità di figure e di ambienti.””

– da pag.117. “”La polvere. La caduta di un uomo potente ha molti risvolti che la pigrizia delle cronache racconta in modi sempre un po’ banali. Dalla parte di chi perde c’è il censimento dell’ingratitudine delle solitudini, e magari dei propositi di rivincita. Mentre dalla parte opposta, tra i nuovi vincenti, c’è come un sentimento di onnipotenza che per qualche tempo sembra accompagnare il famoso corteo dei trionfatori del momento… Lì per lì, i termini politici apparvero subito chiari: si trattava di sacrificare, senza troppo pensarci, una figura che era diventata ingombrante e controversa. Una figura che agli uni appariva troppo indulgente verso il movimento degli altri. E agli altri, di converso, troppo corrivo verso le esagerate prudenze dei primi. Vittime, insomma, del troppo poco e del troppo in una sola volta… Lui se ne ebbe un misto di incredulità e di amarezza. Si vide messo da parte senza troppi riguardi, secondo modalità che aveva quasi sempre cercato di risparmiare a nemici e avversari. E ne ricavò per giunta sui media dell’epoca una gran quantità di ritratti velenosi, insinuazioni meschine, che sulle prime ferirono il suo amor proprio più di quanto ci si sarebbe aspettati. C’era come un senso di liberazione tra i suoi colleghi che ora lo mettevano da parte; quasi specularmente, un senso di oppressione, di ingiustizia che scandiva le sue giornate di apparente solitudine…””

-da pag.137. “”La sua discesa agli inferi dopo una decina d’anni trascorsi in prima fila, come si è detto, era stata brusca e amara. E nella solitudine di quei mesi gli capitò di pensare che le antiche regole del sistema, quelle per cui si cadeva quasi sempre sul velluto, in qualche modo garantiti dalla complicità degli altri, avevano finito per riservare la loro eccezione alla sua persona. C’era stato qualcosa di ruvido in quella sua caduta. Quasi una vendetta perpetrata in nome di tutte le volte in cui una comunità riottosa e poco convinta aveva dovuto sottomettersi alla sua guida covando in sé l’attesa di liberarsi nella prima occasione.  Il suo partito lo aveva seguito gli aveva obbedito. Ma per quanto era stata l’ obbedienza, magari un po’ riottosa, altrettanto era il risentimento che ne scaturiva. Era il successo che gli veniva rimproverato non meno che la difficoltà… Sta di fatto che Egli venne a trovasi, nei giorni della sua eclissi, nel punto più strategico del sistema politico, messo ai margini da un potere che cominciava a traballare… Il suo cattolicesimo non era un rito della domenica. Aveva letto diligentemente i Padri della Chiesa, in particolare le opere di San Tommaso che lo avevano in qualche modo guidato verso la missione civile. Era terziario dell’Ordine Domenicano, il più contiguo al suo rigore intellettuale. Con il Papa c’era una antica consuetudine – ancora dagli anni universitari – che si nutriva di molti autori e libri scoperti quasi insieme e di modi di pensare e di soffrire che andavano allineandosi più per affinità che per disciplina. Li accomunava la Fede insieme al carattere, come a dire lo stesso modo di pensare all’eternità e di vivere la quotidianità.””

-da pag.148. “”Più avanti quando gran parte di quella china era stata risalita, gli capitò di sentirne quasi il sinistro richiamo. Si trovava a Washington in visita di Stato. Fu un colloquio brutto, piuttosto brusco, che negli anni seguenti rimbalzò in molte delle cronache politiche e delle dietrologie del tempo e dette perfino adito al sospetto che di là delle parole della diplomazia internazionale si potesse intravedere una sorta di minaccia. Di quel colloquio furono forniti versioni ufficiali più blande, probabilmente veritiere, forse edulcorate. Si trattava pur sempre di un incontro di Stato, svolto in una residenza del Governo americano alla presenza del consigliere d’Ambasciata, funzionari, collaboratori e interpreti. Ma il sottinteso di quelle parole di quel dissenso dovette invece apparirgli lì per lì più oscuro, se non addirittura intimidatorio. O almeno, così lo intese… Sta di fatto che poche ore dopo quel colloquio, fu colto da un malore. Contro i doveri del protocollo si imbarcò per tornare in Italia, affidato alle cure dei suoi medici, lasciando che il Capo dello Stato proseguisse la sua visita da solo. A quel punto, turbato per il clima che aveva sentito incombere su di sé, diede incarico ai suoi collaboratori di spargere la notizia che aveva in animo di ritirarsi, almeno per un po’, un paio d’anni o giù di lì, dalla politica attiva… L’americano disse all’italiano che non credeva affatto alla possibilità di conversione dei comunisti alla democrazia, e glielo disse in modo un po’ ruvido e sbrigativo, secondo lo stile con cui gli piaceva esprimersi. Il dialogo tra di loro era sempre stato piuttosto difficoltoso, e le loro quasi opposte convinzioni non aiutava. Erano due persone agli antipodi e forse rappresentavano anche due mondi quasi altrettanto agli antipodi… Ma per quanto avesse rilievo tutto questo, rimase sempre qualcosa di inesplorato in quel malore improvviso, in quel viaggio lasciato a metà, in quel proposito di ritiro dalla vita pubblica. Qualcosa che alludeva a troppa durezza da una parte e forse a troppa fragilità dall’altra.””

– da pag.195. “”La fine. La fine fu un dolorosissimo, angosciante viaggio agli antipodi di sé stesso. Quel viaggio, come è noto, durò per 55 lunghissimi giorni. Giorni nei quali tutta la sua vita si rovesciò nel suo contrario. Lui, così elegante e discreto, esibito in maniche di camicia di fronte a tutti. Lui, sottile tessitore di equilibri, schiacciato nella trincea di una guerra civile che si combatteva intorno al suo destino. Lui, distillatore di parole e sfumature, assurto a simbolo di una tragedia pubblica punteggiata dalla retorica della guerra e del sangue. E infine lui, il politico più potente del Paese, ridotto alla mercé di una banda di tagliagole che l’ avevano preso in ostaggio e si apprestavano a giustiziarlo senza nessuna pietà… La messa in scena di quella tragedia pretendeva innanzitutto che lui venisse sfigurato. Le prime foto che vennero diffuse lo fecero vedere, credo non a caso, spogliato di ogni vestigia della sua decorosa e piuttosto solenne quotidianità. Niente giacca, niente cravatta. La camicia diligentemente sbottonata. Lo sguardo incredulo, perso nel vuoto. Uno scatto impietoso che voleva esibirlo come un uomo in catene al cospetto di un tribunale che lo condannava prima ancora di averlo ascoltato. Passarono pochi giorni, pochissimi, e dalla Cittadella del potere – quella Cittadella che lui aveva presidiato così a lungo – si provvide a sfigurarlo in un’altra maniera. Non appena usò ricordare che in tutti i casi simili al suo si era ragionato, si era trattato, all’occorrenza si era scesi a patti, si decise che quelle parole non potevano essere le sue. E per colmo di paradosso quel disconoscimento venne affidato a un gruppo di suoi amici, di quelli che pretendevano di conoscerlo più di tutti. Intanto, una lunga coda velenosa di sospetti, paure, insinuazioni, meschinità, seguiva il corteo degli eventi. Nel volgere di pochi giorni si pensò che laggiù, non si sapeva bene dove, egli potesse rivelare chissà quali segreti, abbandonarsi a confessioni imprudenti, farsi trascinare nei luoghi più torbidi in cui quella Repubblica forse nascondeva le sue vergogne… La stessa cautela con cui si dava da fare per cercare di salvaguardare quel brandello di vita che ancora gli rimaneva, veniva facilmente scambiata per una mancanza di eroismo. Quasi che il tentare di sopravvivere in quelle circostanze dovesse essere catalogato come una forma, se non proprio di codardia, almeno di eccessivo attaccamento alla propria persona. Qualcosa di troppo stridente con i toni bellicosi con cui lo Stato rivendicava la sua decisione di non cedere in alcun modo alle richieste e alle pretese dei terroristi. Ancora una volta si affacciava ad una sorta di corale diffidenza nei suoi riguardi. E se prima era risultata insopportabile la sua supremazia di pensiero, ora quella supremazia poteva facilmente venire capovolta fino a scivolare verso la rappresentazione caricaturale di un uomo tremebondo, dominato dalla paura e forse addirittura incline a una forma di vigliaccheria. Ultimo adepto della sindrome di Stoccolma, come si disse.””

– da pag.212. “”La sua politica, di più, la sua stessa vita, stavano per svanire in un attimo dopo che i valori racchiusi nel tempo e nella misura svanivano a loro volta dall’orizzonte delle sue ultime giornate. A distanza di quasi mezzo secolo diventa indiscreto scandagliare la sua memoria e cercarvi le tracce di una disperazione più intima di quella che le lettere vergate in quei giorni testimoniarono al mondo e ai suoi cari. Ma certo, una volta che gli era stato sottratto il potere, sottratta la libertà, sottratto il tempo, sottratta la misura, sottratta la famiglia e che per pochissimo gli sarebbe stata sottratta anche la vita, ogni cosa tornava per così dire alla sua radice. Gli restavano pochi giorni, come sappiamo e come a quel punto lui stesso intuiva. E gli restavano le parole, di cui era pur sempre maestro. Solo che ora quelle parole, che per anni e anni erano state una sorta di sinfonia, diventavano a quel punto un grido. Deformato dall’eco non disinteressata che si produceva dall’interpretazione che ne veniva data al di fuori di quel covo. Il suo linguaggio era sempre stato il suo modo di padroneggiare la politica e la vita… Accumulava così fogli su fogli nei quali un po’ rispondeva alle domande altrui e un po’ forse cercava di rispondere anche a se stesso. Fogli che sarebbero rimasti a lungo nascosti, poi sorprendentemente ritrovati una dozzina d’anni dopo e di lì in poi scrutati con cura alla ricerca di nascondigli verbali nei quali ci si fosse perduto qualcosa. La grafia era la sua, inconfondibile seppure più nervosa e disordinata del solito. La prosa cercava di richiamare la sua storia, tra infinite differenze. C’era un tratto di inevitabile malinconia, che non era mai affondata nel corso delle sue battaglie politiche di una volta. Qualche forma di ingenuità, quasi un inseguimento di una freschezza di ragione e di stati d’animo che lo avevano accompagnato nei suoi primi passi verso un destino che ora si faceva così improvvisamente buio. In compenso era cancellata, impietosamente cancellata, ogni traccia di quella ironia sottile a volte quasi impercettibile, che pure aveva attraversato ognuno dei suoi discorsi, pubblici e privati.””

— da pag.219. “”La persona di cui si parla in queste pagine, ovviamente, è Aldo Moro. Una figura citata spesso, fin troppo, molte volte anche a sproposito… Qui si vorrebbe solo ricordare la sua figura umana, frugando un po’ nella sua intimità e spulciando nelle pieghe del suo carattere. Il senso della sua storia si può invece rintracciare nel fondamentale compito che gli era stato dato: quello di allargare le basi della democrazia. Voleva sbloccare un sistema imperniato sull’eternità democristiana. Di qui aprendo prima ai socialisti e poi ai comunisti. Non per compiacerli e non per sottomettersi. Ma per riconoscere che anche quei mondi, quei ceti, quelle storie – tanto diverse dalla sua – avevano il diritto di entrare a pieno titolo nella vita dello Stato italiano. Di questo visse, di questo morì – come è noto. Forse è meno noto, nemmeno ovvio, quel sentimento di fragilità che lo accompagnò a lungo tutti quegli anni. Quasi come il  minaccioso annuncio  di quello che gli sarebbe potuto accadere.””

Sin qui il libro.

Ora conclusione con le parole del Prof. Giuseppe Fioroni ( già Presidente della nuova Commissione d’inchiesta Moro 2, che ho avuto l’onore di conoscere), già eminente Parlamentare e Ministro della Repubblica, ed ora Docente Universitario di Medicina, che condividiamo pienamente in relazione allo stato politico attuale: ”Le conseguenze le vediamo oggi, il guado in mezzo al quale ci troviamo è anche il risultato della mancata rigenerazione della Democrazia che Moro aveva immaginato e a cui stava lavorando. Dopo la sua morte ci si è tornati ad arroccare ciascuno nelle rispettive paure. A quella che si è soliti definire Seconda Repubblica è mancato proprio un autentico progetto politico di allargamento della Democrazia. Ci si è illusi che bastasse cambiare la legge elettorale…” magari rimaneggiando anche il pilastro della Carta Costituzionale… ci permettiamo di aggiungere noi! Giuseppe Fioroni con la giornalista Maria Antonietta Calabrò, ha scritto alla fine del 2018, l’interessante libro “Moro, il caso non è chiusoLa verità non detta”, edito da Lindau, da me illustrato e commentato su questa testata (https://www.attualita.it/notizie/politica/nuove-verita-sul-caso-moro-35911/)

Tornando al Belpaese, c’è chi invoca demenzialmente ancora, oggi, una generale sanatoria sugli anni di piombo, idea vagheggiata autorevolmente in recente passato anche da importanti ambiti politici; ma noi, da Liberali, liberi Cittadini, liberi pensatori non massoni, diciamo invece a chiare lettere che non si può chiudere questo tragico capitolo dal quale sono iniziati i grandi disastri della politica nostrana se tutta la verità non solo processuale ma anche storica non sia stata acquisita.

Sulle Brigate Rosse e il terrorismo ho letto molti libri poi riversati in articoli pubblicati su questa testata di cui è Direttore Salvatore Veltri.

Recentemente trattata “La criminalità servente nel Caso Moro” (La nave di Teseo, pp. 294) del 2018,libro di Simona Zecchi, autorevole e bravissima giornalista d’inchiesta, che ha bene evidenziato il ruolo svolto dalla criminalità organizzata durante i cinquantacinque giorni del drammatico evento con un’inchiesta molto documentata facendo emergere fatti inediti e informazioni poco note. Si, una “criminalità servente” al servizio di alte aree di potere con le quali appaiono legati è esistita. Invito a leggere; qui l’articolo:

(https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/la-criminalita-servente-nel-caso-moro-il-libro-di-simona-zecchi-48712/)

 

 

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