Tematiche etico-sociali

La criminalità servente nel Caso Moro, il libro di Simona Zecchi

Il ruolo svolto dalla criminalità organizzata durante i cinquantacinque giorni del drammatico evento.

Roma, 17 gennaio 2021 – Con un’inchiesta molto documentata la grande saggista Simona Zecchi fa emergere fatti inediti e informazioni poco note sul Caso Moro con l’interessante libro “La criminalità servente nel Caso Moro” (La nave di Teseo, pp. 294) del 2018.
Coinvolta la mafia, la cui presenza mai è stata formalmente accertata per incuria e omissioni; coinvolta la ’ndrangheta calabrese che ha operato in più ambiti, sia con le istituzioni, i partiti e i terroristi; ovviamente anche la camorra. Si, una “criminalità servente” al servizio di alte aree di potere con i quali appaiono legati è esistita.

Un libro da leggere.

Il 16 marzo 1978, tutti, chi più, chi meno, ricordano cosa accadde. Era previsto il voto di fiducia della Camera dei Deputati per l’insediamento del IV governo presieduto da Giulio Andreotti. Questi contava di ottenere l’appoggio esterno del P.C.I., a coronamento del “compromesso storico” voluto da Enrico Berlinguer. Così, poco prima delle 9:00, il Presidente della Dc Aldo Moro uscì dalla propria residenza romana per recarsi a Palazzo Montecitorio e, insieme ai Carabinieri Maresciallo Oreste Leonardi, capo scorta e App. Domenico Ricci, autista, salì su una Fiat 130, scortata da un’Alfetta su cui presero posto tre Agenti di Polizia (Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi). Lungo via Fani – all’incrocio con via Stresa, la macchina presidenziale fu bloccata da una Fiat 128, guidata da Mario Moretti, capo della colonna romana delle B.R. Dalle fioriere dell’antistante Bar Olivetti sbucarono quattro brigatisti camuffati da avieri dell’Alitalia (Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Valerio Morucci) che in pochi minuti spararono 91 colpi, trucidando i cinque uomini della scorta di Moro. Un testimone oculare dell’agguato fu preso di mira senza conseguenze da due giovani in sella a una moto Honda, che sembra non appartenevano alle Br e sulla cui identità non fu fatta chiarezza. Il Presidente fu rapito e trasferito su una Fiat 132, per essere poi condotto − secondo la dubbia ricostruzione dei fatti fornita in seguito dai brigatisti – nel covo di Via Montalcini, dove sarebbe rimasto fino all’esecuzione, avvenuta il 9 maggio seguente. La morte di Moro, oltre a mettere in crisi il compromesso storico, lasciò un lungo strascico di sospetti e segreti, su cui hanno tentato di fare luce cinque processi e due Commissioni parlamentari d’inchiesta, l’ultima delle quali ha chiuso i propri lavori nel dicembre 2017, sconfessando il “memoriale” scritto in carcere nel 1986 da Morucci.

Iniziamo la lettura di parti del libro.

“”Perché questo libro. Il vero protagonista nascosto di quel dramma il cui palcoscenico è stato calpestato da più personaggi a più livelli – è la criminalità organizzata nelle sue componenti fondanti di quegli anni, quelle meno note al grande pubblico. Un ruolo, il suo, sempre accennato, poco chiarito e spezzettato tra carte giudiziarie e cronache sommerse dal tempo e dall’incuria o dall’imperterrita attitudine tutta italiana di non volersi accorgere delle evidenze: quelle che contano, quelle che restano.””
– da pag. 16… “Come si sono mosse queste organizzazioni criminali all’ interno di quel groviglio che è ancora il Caso Moro? E tornando al problema posto in partenza, che cosa ha impedito la liberazione di Aldo Moro tra trattative andate in fumo e accordi sotto banco? Perché partiti e governo, pur con alcune eccezioni, non hanno voluto derogare a quello zelo di fermezza che in altri casi sia precedenti il sequestro sia successivi la morte non è stato minimamente posto in essere? La questione verrà affrontata subito, nel capitolo 1, per poi entrare nel cuore di quei cinquantacinque giorni e svelare il legame oscuro che ha fatto da collante alle organizzazioni criminali nel caso Moro ma non solo. I fatti che hanno fermato le iniziative poste in essere per liberare lo statista, punto di equilibrio del sistema, verranno subito sviscerati e allineati anche nelle loro contraddizioni. Il Caso Moro è sì un fatto politico dai risvolti internazionali, ma allo stesso tempo è la somma di fatti criminali, quindi un caso giudiziario. Scioglieremo quel nodo e poi entreremo nel vivo della vicenda: la costante ‘ndrangheta in tutte le fasi di quei cinquantacinque giorni, legami che la uniscono alla camorra, alla banda della Magliana e all’eversione di destra, le cui conseguenze verranno qui analizzate. È intenzione di chi scrive cercare di far comprendere a tutti i lettori la parola servente, espressa nel titolo del volume, e farla diventare un termine familiare nella ricostruzione del Caso Moro. Anche l’ultima Commissione parlamentare d’ inchiesta Moro, istituita nel 2014, nella sua terza e ultima relazione del dicembre 2017, ha consegnato un lavoro non esaustivo, monco, sebbene non privo di novità e di passi avanti rispetto alla precedente Commissione e alla stessa Magistratura che si è occupata di quei fatti nel corso di cinque lunghi processi. Era forse l’ultima occasione, da parte delle istituzioni, di consegnare al paese verità davvero indicibili, nonostante i roboanti annunci alla fine delle indagini (e della legislatura). É questo sospeso che qui andremo a ricostruire.””
“La piramide rovesciata.” “Quando si voglia ricorrere a una metafora per rappresentare questa situazione possiamo pensare a una piramide il cui vertice è costituito da Licio Gelli; quando però si voglia a questa piramide dare un significato è gioco forza ammettere l’esistenza sopra di essa di un’ altra piramide che, rovesciata, vede il suo vertice inferiore in Licio Gelli. È nella piramide superiore che vengono identificate le finalità ultime”. F.to Tina Anselmi, Pre-relazione alla Relazione finale della Relazione Commissione Parlamentare P2.
Un futuro compromesso. Nel Memoriale Pecorelli – pubblicato a cura di colei che, prima che morisse assassinato il 20 marzo 1979, era compagna e collaboratrice del giornalista, che ha riordinato gli articoli di Pecorelli sul Caso Moro e i suoi pensieri al riguardo – il cronista fa questa considerazione: “Se dietro al sequestro c’è la mafia non c’è nulla da fare”. E aggiunge: “Perché se la mafia è giunta a interferire nel sequestro dell’uomo che rappresenta il punto di equilibrio del sistema, questo significa che ha deciso di assumere la direzione di quel governo invisibile che da tempo amministra il paese”. Se c’è stato qualcuno che ha capito il vero problema del Caso Moro, è stato appunto Mino Pecorelli. Con il sequestro e la morte di Moro, in via Fani e via Caetani e in tutto ciò che in mezzo è avvenuto, la mafia e soprattutto la ‘ndrangheta e la sua componente riservata (ovvero criminalità organizzata, ma anche servizi segreti, massoneria, Magistratura e parte delle istituzioni) allungano le mani sul paese, cosa che si ripete ogni volta in cui il paese va verso la rovina. Tanti, infatti, sono i crocevia che lo hanno permesso: la madre di tutte le stragi, Piazza Fontana, in cui anche la mafia è stata coinvolta, quelle successive degli anni ottanta, quelle del 1992-93, per citare soltanto gli eventi più importanti; ma anche alcuni episodi che hanno determinato senza che lo sapessimo svolte pericolose. Simbolo di queste “svolte” è la distruzione del processo democratico avvenuta con la morte di Moro, quel processo (opposto al piano di “rinascita” voluto e messo in moto dalla P2) di alternanza di governo nel senso dato dallo statista, non soltanto con il Partito comunista, che pure, però, in quel momento era il primo tra i partiti con cui Moro voleva dialogare attraverso la sua “strategia dell’attenzione”. Una distruzione avvenuta non soltanto in senso nominale o ideale, ma espressa in modo chiaro e concreto da Moro stesso in una delle sue ultime lettere, recapitata alla famiglia il 29 aprile e scritta intorno al 22-23 dello stesso mese, per poi essere consegnata il 2 maggio alla Magistratura. Tutto ciò che è stato portato avanti sin qui con tanta fatica, sta dicendo Moro ai comunisti, poi dovrà essere ridisegnato, cioè sarà finito con la mia morte. Mantenete ufficialmente la posizione della fermezza quanto volete, è comprensibile, visto che dovete apparire estranei al terrorismo, nato dalle fila di chi ideologicamente apparteneva al vostro stesso partito, ma lasciatela lì solo come riferimento, agite in modo diverso. Questo sta dicendo Moro idealmente a Berlinguer. Ed è qui, con il rifiuto a trattare la liberazione di Moro imposto dai comunisti, che quella distruzione ha anche origine. Tullio Ancora (Giurista, Presidente Onorario del Consiglio di Stato, consigliere di Moro, deceduto nel 2018) ha testimoniato al riguardo di essersi fatto messaggero di questo monito e desiderio insieme di Moro, ma che dal PCI arriverà un ulteriore rifiuto. É certo che l’ ingresso del PCI nella maggioranza, e non nel governo, avrebbe avuto con Moro al Quirinale un altro processo, un altro sviluppo. Con la morte di Moro il PCI otterrà soltanto una “solidarietà nazionale” e la mera illusione di essere entrato nella stanza dei bottoni. Ecco perché abbiamo iniziato queste conclusioni con Pecorelli: il giornalista ha sempre parlato di mafia e BR, mafia e Stato, ed è stata questa, molto probabilmente, in riferimento al Caso Moro, la causa della sua morte. Anche per quanto riguarda l’omicidio Pecorelli, infatti, esiste una pista d’indagine riferita alla ‘ndrangheta, pista lasciata scivolare via a favore della versione dei fatti riferita da Tommaso Buscetta e dalla banda della Magliana. E non è detto che, una cosa escluda l’altra.
Interferenze. Uno dei meriti dell’ ultima Commissione Moro – che si è avvalsa della collaborazione di consulenti (come il Magistrato Guido Salvini e il Tenente Colonnello dei CC. Massimo Giraudo) il cui lavoro è stato indubbiamente prezioso – è quello di aver svolto accertamenti mai effettuati prima, pur nella sua monca relazione finale e nonostante alcune inspiegabili mancanze; di certo gli atti che la compongono sono molto più completi e interessanti della stessa relazione finale. L’aspetto più rilevante riferito dalla relazione è sicuramente quello relativo alla palazzina di via Massimi 91, la cui proprietà è riconducibile allo IOR (Istituto per le Opere di Religione), la banca vaticana. Un covo e una prigione, tra le prime se non la prima delle prigioni di Moro, situata a poche centinaia di metri da via Fani e caratterizzata dalla presenza di Cardinali e società straniere. Da un punto di vista amministrativo, la proprietà di quell’ immobile è stata accertata appartenere a Luigi Mennini, padre di don Antonello Mennini, poi scelto dalle BR come canale della trattativa, e che si sospetta possa essere entrato più volte nella prigione. Alcune testimonianze hanno inoltre confermato la presenza costante di Monsignor Paul Marcinkus. All’interno delle palazzine, però (sono due numeri civici: 91 e 96), la Commissione ha riscontrato altri tipi di presenze che potrebbero aver avuto una funzione nel sequestro Moro, come ad esempio la società americana Tumpane, identificata con la società Tumco, compagnia che nel 1969 forniva assistenza alla presenza NATO e statunitense in Turchia. Il Magistrato Salvini e il Tenente Colonnello Giraudo hanno sentito al riguardo una persona informata sui fatti facente parte del mondo militare, che in quei giorni abitava nello stabile e che ha confermato di aver dato ospitalità, dopo il sequestro Moro, a Prospero Gallinari, l’uomo che ha coniato l’ espressione “cubo d’acciaio” per definire l’ inossidabile organizzazione delle Brigate rosse. La persona in questione ha anche confermato di aver accettato la richiesta fattagli in merito, ovvero di ospitare il brigatista, da parte di Valerio Morucci Adriana Faranda. È logico domandarsi come Gallinari abbia potuto fermarsi in quel posto che pullulava di ufficiali, spie americane, prelati, politici DC e via dicendo; più difficile è trovare a tutto ciò una risposta altrettanto logica.
Le BR sapevano di Pieczenik. Tra le questioni rimaste aperte c’è poi senz’altro il ruolo
dell’americano Steve Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato USA ai tempi del sequestro, che nel 2014, costretto dall’amministrazione Obama, ha dovuto rendere testimonianza alla Magistratura romana. Nel 2008, infatti, Pieczenik, anche psichiatra esperto di tecniche di controterrorismo ed elemento formalmente distaccato
dall’intelligence americana, ma a essa contiguo, scrive un libro con il giornalista francese Emmanuel Amara, “Abbiamo ucciso Aldo Moro”, che verrà preso in considerazione appunto solo nel corso del 2014. Quell’anno, il Magistrato Luca Palamara vola negli USA e lo sente come testimone dei fatti. Poi succede che questa parte d’indagine, che la Procura gestisce insieme a un delicato filone che in seguito archivia, viene avocata dalla Procura Generale (Procuratore Generale Luigi Ciampoli), che però farà richiesta perché si proceda nei confronti di Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’ omicidio di Aldo Moro. Di questo filone d’ indagine non è ancora nota la chiusura. Nel novembre 2013, durante un’intervista rilasciata al giornalista di Radio24 Gianni Minoli, intervista interamente acquisita dalla Procura, l’ ex funzionario di Stato americano contiguo alla CIA riferirà al giornalista questi fondamentali elementi: “No, non ero favorevole all’ iniziativa del Vaticano volta a trarre fuori dal sequestro Aldo Moro attraverso il riscatto: fui proprio io a bocciarla. Le ripeto, il punto non era Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate Rosse e la destabilizzazione delle BR in Italia. Si, ho detto io a Cossiga di suggerire di screditare la posta in gioco e cioè l’ ostaggio [facendo dichiarare che le lettere non erano frutto diquanto da lui realmente scritto]. Erano tutti convinti che se i comunisti fossero arrivati al potere e la DC avesse perso si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione; gli USA avevano un preciso interesse per quanto riguardava la sicurezza nazionale, soprattutto l’ Europa del Sud. Il Caso Moro non è soltanto il risultato di un’ azione di matrice unicamente terroristica, dunque, ma il senso che lo definisce resta ben inquadrato nelle logiche politico-criminali che hanno trasformato questo paese lentamente ma inesorabilmente negli ultimi quarant’ anni.””

Sin qui il libro.

Ora riportiamo alcuni tratti dell’articolo di Giuseppe Licandro apparso su: “Excursus.org.” rivista di attualità e cultura, a commento del libro in trattazione. La versione dei fatti fornita dai brigatisti presenta evidenti falle e contraddizioni. Nel corso del quarto processo Moro, la Corte d’Assise di Roma ha dimostrato che a sparare furono sei o sette armi «contro le quattro indicate in seguito dai brigatisti», così come una recente sentenza della Magistratura romana ha stabilito che i protagonisti dell’agguato «furono molti di più dei nove o dodici brigatisti indicati da Valerio Morucci». La novità più importante emersa recentemente, tuttavia, è la foto – scattata in via Fani il 16 marzo 1978 da un carrozziere – che è stata pubblicata nel 2016 dal quotidiano Il Messaggero, nella quale si distingue il boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta, pochi minuti dopo la strage. Alle sue spalle s’intravedono le saracinesche del Bar Olivetti, il cui proprietario fu segnalato dalla Polizia come «partecipe di una rete di interessi criminali legati al traffico internazionale di armi». Simona Zecchi inserisce nel libro anche una seconda foto – scattata lo stesso giorno, sempre in via Fani da una persona identificata – nella quale si riconosce Giustino De Vuono, ex volontario della Legione Straniera, nonché «criminale e aspirante ’ndranghetista mai affiliato ufficialmente». Alcune delle armi usate in via Fani e quella adoperata per uccidere Moro appartenevano alla ‘ndrangheta, in particolare due fucili mitragliatori Skorpion che furono in seguito dati in custodia dal boss reggino Orazio De Stefano a Nino Fiume, divenuto nel 2002 collaboratore di giustizia. Un primo contatto con personaggi della ‘ndrangheta – «disponibili a salvare il Presidente della Dc in cambio di vari “lasciapassare”» – fu intrapreso dal democristiano Benito Cazora. I boss calabresi, infatti, avevano identificato una delle prigioni di Moro ed erano pronti a eseguire un blitz per liberarlo. Le varie prigioni di Moro. Un’altra verità inquietante, emersa nelle indagini più recenti, è il fatto ormai acclarato che Moro fu custodito in più prigioni, probabilmente tre: i brigatisti rossi, quindi, mentirono quando indicarono in via Montalcini l’unico carcere dove sarebbe stato segregato durante i 55 giorni del sequestro. Subito dopo il rapimento, il Presidente democristiano fu trasportato con un furgone nel quartiere romano della Balduina e rinchiuso in un appartamento di via Massimi, prima citato. In un secondo momento, Moro fu trasferito a Vescovio, in provincia di Rieti, in un alloggio usato da vari gruppi terroristici (Brigata XXVIII marzo, Prima Linea, Unità Combattenti Comuniste), scoperto nel 1979. Le perizie eseguite sul corpo e sui vestiti di Moro, infatti, hanno evidenziato la presenza di sabbia, di bitume e di un tipo di roccia calcarea che si trova solo nel Reatino, «dove si è sedimentata sin dal mesozoico».Il giudice Giovanni Canzio, in un’intervista rilasciata nel 1979 al quotidiano l’Unità, dichiarò di essere stato sul punto di scoprire il covo di Vescovio, nelle settimane successive al rapimento di Moro, ma di aver dovuto interrompere le ricerche dopo il finto volantino delle Br del 18 aprile che «indicava nel Lago della Duchessa il corpo di Aldo Moro». Il falso comunicato fu in realtà stilato dal falsario Tony Chichiarelli, legato alla Banda della Magliana. Moro, infatti, fu trasferito nella zona della Magliana e rinchiuso nel covo di via Montalcini, dove rimase fino alla morte. Un altro enigma rimasto irrisolto riguarda le ragioni dei tre viaggi compiuti da Moretti in Sicilia e in Calabria a metà degli anni Settanta, all’insaputa del resto delle Br».

Conclusione. In tutti questi anni di povertà culturale e politica ricca di narcisismo e “pompa” che fruttano fior di miliardi grazie ad agenzie di malaffare, banche “libere” che creano addirittura crisi finanziarie, rendiamo certamente omaggio al più grande Uomo politico del dopoguerra, unitamente a De Gasperi, non dimenticando i Caduti per mano terroristica e mafiosa in lunghi decenni.

Nella circostanza, ricordiamo il grande drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che scrisse: “Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi. Ma ancora più sfortunato il popolo che ne disperde l’esempio e l’insegnamento…”.

Per chi volesse ancora leggere sull’argomento allego altri due miei articoli pubblicati su questo giornale di cui è Direttore Salvatore Veltri, sia sull’ultima Commissione parlamentare d’ inchiesta Moro, istituita nel 2014,sia per un doveroso omaggio ai Caduti di via Fani.

.(https://www.attualita.it/notizie/politica/nuove-verita-sul-caso-moro-35911/)

(https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/ricordando-via-fani-doveroso-omaggio-alle-famiglie-dei-valorosi-caduti-con-ricordi-personali-40726/)

 

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