Spettacolo

Andrea Chénier di Giordano

teatro chenier 2017L’opera ‘Andrea Chénier’, che si ascrive di diritto nel catalogo verista, è stata firmata da Umberto Giordano nel 1896 e dunque corre in linea anagrafica con molti mélo del coevo Giacomo Puccini, e non a caso in questa composizione in particolare i richiami ai climi e ai personaggi dei melodrammi del lucchese sono numerosi, a cominciare da quel salotto agonizzante e inconsapevole nel quale circolano “trine morbide” che richiamano “Manon Lescaut” o a quelle situazioni che ricordano “Tosca” (che sarebbe stata composta quattro anni dopo Chénier), con la violenta dichiarazione d’amore di Gérard a Maddalena che richiama il tentativo di stupro del ministro Scarpia ai danni della cantante.

Quel che colpisce in questo allestimento di Andrea Chénier è la progressiva astrazione e il distacco portati avanti fino alla scarnificazione dagli orpelli veristi in funzione di una coerenza estrema operati da Marco Bellocchio, il regista. Man mano che la vicenda incalza, egli attua la spoliazione di ogni sovrabbondanza dallo spettacolo. In linea con la scena, i costumi e le luci  di Gianni Carluccio, che dai sontuosi saloni delle feste del palazzo dove con incredibili parrucche e abiti di sete lucenti  (costumi di Daria Calvelli), valorizzati da tagli di illuminazione perfetti,  si aggirano la contessa de Coigny e i suoi ospiti aristocratici nel primo atto, disturbati poi dalla irruzione da una balconata esterna di  popolani in rivolta, conduce nel secondo atto alla sala dove si riunisce il gruppuscolo giacobino capeggiato da Gérard, fino all’aula monumentale ma fredda del Tribunale dove si amministra la giustizia rivoluzionaria. Per raggiungere poi il massimo dell’astrazione quando arriva il momento di far salire i condannati sulla carretta di Sanson per condurli al patibolo. Qui non c’è la via, né il carro, ma, come a far da sfondo alla statua polverosa di Marat, scritte grattate sul muro di sfondo che riportano nomi e date, stratificate da generazioni di detenuti, gli ultimi disperati messaggi di un percorso di dolore. O, nel finale, poco prima del sacrificio di Chénier e Maddalena, che sceglie di condividere la sorte dell’innamorato, una parete frontale di vecchie immagini fotografiche in B/N che riproducono volti semi cancellati di esseri umani di ogni età, vecchi, donne e bambini compresi.

La memoria collettiva del pubblico li individua immediatamente come vittime innocenti di stragi, come i desaparecidos argentini. Perché in quest’opera marcata dai canti rivoluzionari, (“Marsigliese” e “Ça ira”), la regia di Bellocchio sconfigge la veridicità e il tempo storico alla ricerca di dinamiche più universali, da far agire per sistematizzare gli aventi in una dimensione a-storica.

Ne consegue che sarebbe vano attendersi la magniloquenza che era la cifra distintiva di tutto questo tipo di repertorio, che qui, invece, è mitigata da quelle venature melodiche che scorrono per tutta l’opera. In quest’ottica “moderna”, persino il momento più patetico del mélo, quando Madelon, la cieca, offre il nipotino ancora fanciullo orfano alla Rivoluzione, risulta addirittura folle e grottesco, non fosse che ad interpretare la vecchia è stata chiamata Elena Zilio, interprete con carica di esperienza che testimonia una tecnica poderosa e un fraseggio perfetto

Naturalmente, bisognava fare i conti per comprendere appieno il successo di questo allestimento con alcune considerazioni di merito: intanto il fatto che il titolo, nato in collaborazione con la Fenice di Venezia, mancava da ben quarantadue anni dal palcoscenico romano, poi che si era riusciti ad assicurarsi un elegante e raffinato direttore d’orchestra come Roberto Abbado e si era potuto metter a punto un cast di voci di primissima scelta, a cominciare dal personaggio eponimo, Andrea Chénier, affidato all’ottimo Gregory Kunde, tenore eccellente nel registro mediano, dai legati corretti e dall’emissione rotonda, che si era messo in luce in Italia per la lunga frequentazione con il ROF (Rossini Opera Festival) di Pesaro nei ruoli di baritenore e che qui mostra a sorpresa una padronanza del ruolo, una chiarezza e una brillantezza di colori che si esaltano nel registro acuto, approdando ad una vocalità “eroica”, ovvero robusta e declamata; una prestazione professionale, la sua, che dà significazione alla parola alata di Chénier, poeta appena trentenne morto ghigliottinato dal Terrore nel 1794, a Parigi. Ultima prole di una nobiltà in caduta libera, che sconta nel sangue la propria appartenenza ad una società frivola e ingiusta, incapace di vedere i patimenti delle classi subalterne, Maddalena di Coigny, innamorata del poeta, rimasta sola dopo l’assassinio dei suoi familiari, a lui destina il suo bisogno di amore e protezione, affidando al soprano Maria Josè Siri, il percorso evolutivo di un personaggio che passa dalla vaghezza e superficialità di fanciulla ricca e vezzeggiata alla più nera disperazione quando, dopo aver perso tutto, si ritroverà a dovere accettare l’aiuto di Bersi, la mulatta di casa, diventata  una “meravigliosa”, ovvero una prostituta al servizio della Rivoluzione.

Straordinario Roberto Frontali nel difficile ruolo di Gérard a scavare un personaggio complesso ed estremamente modulato, prima ribelle e violento, poi patriota, poi schiavo di una passione d’amore che lo tiene avvinto all’immagine di Maddalena fin da quando era una bimbetta, infine eroico quando si autoaccusa tentando di salvare Chénier dal patibolo. Per tutto il percorso psicologico Gérard è sostenuto dalle qualità vocali e interpretative di Frontali, una prestazione eccellente ed esemplare.

Il cast poteva contare anche sull’apporto di bravissimi comprimari, da Natascha Petrinsky, Bersi, alla Contessa di Anna Malavasi, al giovane Mathieu di Gevorg Hakobyan, all’”incredibile” (cioè la spia) di Luca Casalin e Roucher di Duccio Dal Monte.

Una menzione d’onore anche al Coro di Roberto Gabbiani e all’orchestra sempre attenta e scrupolosa quando sa di avere alle spalle un direttore di grande classe come Abbado.

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