Politica

Bombe & dintorni

Di attentati, con bombe o pallottole fa lo stesso, è piena la storia dell’ Europa.

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Roma, 11 gennaio – Si uccise in nome dell’ anarchia  (assassinio del re Umberto, 1900) , della libera autodeterminazione  dei popoli (assassinio del principe Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo, 1914),  si misero bombe in nome della strategia della tensione, (piazza Fontana, 1969, stazione di Bologna 1980, treno  Italicus  1974) si poté far saltare un aereo ed ancora non si sa perché   (Ustica 1980), si son potute tirare statuette in faccia al premier in nome dell’antiberlusconismo, e via discorrendo.  
In questi ultimi anni, però, abbiamo appreso che si può  anche ammazzare in nome di Allah.

E poichè, statisticamente, il fenomeno, purtroppo, è in grande spolvero, date le tecnologie impiegate (un esempio per tutti , le torri gemelle), è doveroso almeno tentare  di approfondire le ragioni di tali eventi.

A fronte, infatti, di manifestazioni  pubbliche e private, di unanime condanna (e come potrebbe essere diversamente?), non sempre si è avuta la volontà  (o il coraggio)  di affrontare il problema da un punto di vista puramente logico, ossia che questo è avvenuto e, purtroppo, continua ad avvenire in nome (e, potremmo dire, per conto) di una divinità  i cui rappresentanti in terra o sono difficilmente individuabili, o reticenti, o del tutto ininfluenti.

Non intendiamo, qui, aprire un dibattito di natura teologica che sarebbe, almeno in questa sede, assurdo, ma solo riflettere su di un aspetto squisitamente logico.

Quando le bombe erano messe dalle c.d. Brigate Rosse, si ebbe la possibilità  di interrogare (prima) e, per fortuna,  condannarne (poi) i capi, o di chi ne faceva le veci.  Costoro non ebbero difficoltà, anzi, ne parvero entusiasti, a dipanare le ragioni delle loro bravate, costate centinaia di morti.  Ne fummo assai rallegrati, perchè, almeno, si seppe che il loro scopo era l’instaurazione della dittatura del proletariato, ideologia da cui ci si seppe, per fortuna, difendere.  Ora, invece, assistiamo ad un fenomeno, il terrorismo islamico, che, se ha un papà  nei cieli, non ne ha, però, in terra, e chi pretende di  farne, almeno, le veci non è in grado  di interpretarne i voleri.

Questo è assolutamente nuovo nel panorama storico, perché   si sottrae ad ogni possibilità   di confronto e (ma speriamo  di no), anche di possibili vie d’uscita. Sappiamo bene che la manovalanza che colloca  gli ordigni  o spara pallottole  assassine non è indagabile, situandosi sovente  a livelli poco piu che animaleschi.  Non è, pertanto, con costoro che urge il confronto. Le risposte debbono e possono essere legittimamente richieste ai loro sedicenti capi, i cosiddetti imam, gli ayatollah, i predicatori, quelli che, a qualunque titolo si collocano ai vertici delle gerarchie. 
Facile? No di certo, ma, almeno,  è doveroso provarci.

Incominciamo ad invitare costoro con il tutto il loro apparato scenografico di barba fluente, turbante e tunica, (con babucce a punta all’insù o scalzi non ci interessa) a qualche dibattito televisivo, si promuovano tavole rotonde nelle università, si invitino ai ministeri degli interni, della difesa, dei beni culturali, e li si inviti  apertamente a spiegare il perché  l’ottanta per cento degli attentati nel mondo avviene  al grido di “Allah è grande”!  Basterebbe esercitare la logica: se uccido in nome della Juventus, parrebbe logico, a qualsiasi mente inquirente, andare a chiedere spiegazioni ad Andrea Agnelli;  se uccido qualcuno in nome di Gesù, è comprensibile che i parenti chiedano spiegazioni al vescovo o al Papa.  È, infatti, abbastanza ovvio che, se sono al vertice di qualsiasi istituzione, sia tenuto a dare  spiegazioni. Nel caso del terrorismo, non l’andrei, però, a chiedere ai cani sciolti che hanno messo la bomba, perchè o sono già morti perchè si sono fatti esplodere o, se vivi, non saprebbero rispondere.  No, lo vado a chiedere a chi si autoproclama loro capo o guida. Perché, allora,  di fronte ai recenti fatti di Parigi , non si ha il coraggio di chiedere conto a i capi delle moschee o ai sapienti francesi dell’islam, ai muezzin e compagnia cantando? Questi curiosi personaggi sarebbero costretti ad esporre, davanti alle telecamere o, comunque, pubblicamente, le ragioni di tali attentati e come essi si possano conciliare con quanto è scritto nel corano.  E visto che, a quanto ci consta, su tale aspetto, ci sono voci quanto mai discordanti, sarebbe una più  che ghiotta occasione di assistere ad un interpretazione autentica. Non solo, ma si avrebbe l’effetto, assolutamente non secondario, di spezzare quel legame ciecamente fideistico che lega la base della manovalanza ai capi, fatto di sottomissione ed accettazione acritica di ogni insulsa promessa (tipo le 40 vergini, per citare solo la più ridicola). Si farebbero uscire allo scoperto questi caporioni e, finalmente , si darebbe un volto ad una religione troppe volte mal interpretata o, tutt’al più, mal conosciuta. Troppe volte, infatti, sentiamo  dire  che l’islam è una religione di pace, di accoglienza ecc, ecc. Noi non lo sappiamo, anzi, vedi un po’, ci vogliamo anche credere, ma ad una condizione: che ce lo spieghino loro, visto che si proclamano guide del popolo. Se sono capi, le cose possono essere solo due, come, molto, molto opportunamente, sembra aver detto il Papa ad Istanbul: o siete conniventi con quelli che compiono gli attentati, o, se no, siete dei capi che non comandano niente. Nel primo caso, finirebbero subito in galera, nel secondo, perderebbero subito la  faccia con tutta la popolazione islamica, con la conseguenza che si dovranno  dimettere.

Le manifestazioni, anche oceaniche, non servono a nulla.

Oggi, ad esempio, a Parigi, sono affluite migliaia di  persone che manifestano l ‘ovvio, contro un interlocutore sconosciuto (i capi o imam, o chi per loro), o  defunto (i tre terroristi), o già  scappato in Siria (la ragazza).

Ci domandiamo  se non ci possa essere altro di più inutile!

Ci viene in mente, a questo riguardo, il famoso episodio dell’incontro tra San Francesco e il Sultano, avvenuto, probabilmente, nel settembre del 1229, in Egitto, nei pressi de  Il Cairo.

Il Santo non andò certo a trattare , ma a proporsi ed a proporre al capo delle schiere islamiche il proprio modello, che era e che continua ad essere Cristo, anzi, potremmo aggiungere, per dirla con San Paolo, Cristo crocifisso ( cfr: 1°  Cor, 1, 22-23 ) .
Dialogo, quindi? Ma certo, anche tutti i giorni , mattino e sera, ma non trattativa, perché il primo esige rispetto dell’interlocutore  e delle sue tesi , (per le quali, com ‘è noto,  Voltaire si dichiarava disposto al martirio pur  di lasciare la libertà  all’altro di professarle ),  per la seconda conta solo l’obiettivo , che può  essere anche assai poco nobile, tipo la spartizione di un territorio o lo sfruttamento economico di un bene. Nel dialogo con il Sultano, possiamo ipotizzarlo, il Santo di Assisi non cedette di un millimetro sui principi, non propose nessuno scambio, ma offrì al suo interlocutore ( che rimase ammirato di tanto coraggio) l’ unica cosa che conta: la salvezza  mediante la fede. È, quindi, solo su questo terreno che si giocherà  al partita del futuro.
Siamo ansiosi che gli uomini col turbante ci spieghino come e perché dalla pace e dall’accoglienza si passi alle bombe.

Attendiamo risposte.

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