Tematiche etico-sociali

La mafia che ho conosciuto…

Si, bisogna conoscerla per parlarne

Roma, 17.11.2020 – L’ interessante libro “La mafia che ho conosciuto”, di Alfredo Galasso, è stato presentato presso la Libreria Eli, in viale Somalia a Roma.
Ho partecipato all’evento al quale era presente anche la sorella del Magistrato Cesare Terranova, ucciso il 25 settembre 1979, proprio nel giorno del suo insediamento nell’alta carica di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo, unitamente all’Agente di PS Lenin Mancuso. Preoccupava i Corleonesi il rientro in scena del Magistrato che aveva fatto processare Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Del libro ne hanno discusso il Procuratore della Repubblica di Roma dott. Michele Prestipino, l’autore, prof. Alfredo Galasso e l’avv. Licia D’Amico, presentati da Silvia Balducci, giornalista del Tg1. Alfredo Galasso (Palermo, 1940) è Avvocato e Professore universitario. È stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura, consigliere regionale e Deputato nazionale. Difensore di parte civile in numerosi processi di mafia, a partire dal maxiprocesso di Palermo del 1986 ha raccontato la sua esperienza professionale e politica in diversi saggi e libri, fra i quali “La mafia non esiste” (Pironti) e “La mafia politica” (Baldini &Castoldi). È autore, tra le pubblicazioni più recenti, di due volumi di Istituzioni di Diritto Privato (Zanichelli, 2016). L’autore ha cominciato parlando del suo rapporto con il Giudice Rocco Chinnici. Oggi sono trentasette anni dall’attentato che gli tolse la vita in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici è stato il fondatore del pool antimafia che poi, col passare del tempo, è diventato quella che oggi è la Direzione Distrettuale Antimafia. Una grande intuizione. Un pool che nacque dalla sua capacità, dalla voglia, dall’insistenza, anche dalla fatica di mettere insieme magistrati di alto rango, di alta capacità professionale – Giovanni Falcone fu chiamato da lui all’Ufficio istruzione di Palermo quando il Procuratore Generale dell’epoca, Giovanni Pizzillo, aveva detto che Falcone, tornato da Trapani, era meglio metterlo a occuparsi di assegni a vuoto e roba del genere.

Iniziamo la lettura di parti salienti del libro.
-da pag.153…“”Michele Sindona in Sicilia. Al finto rapimento di Sindona e alla sua visita in Sicilia sono state dedicate pagine giudiziarie e letterarie, ma nessuna di esse è riuscita a darmi una immagine diversa da quella percepita dal commento e dal tono ironico del mafioso Siino. Lui aveva tenuto in mano i gettoni mentre Sindona da un telefono pubblico parlava animatamente con un tale di nome “Giulio”. Aveva proposto senza successo di trasportare nella casa di Rosario Spatola a Torretta, vicino a Palermo, lo stesso Sindona dove il suo medico e compagno di fiducia, Joseph Miceli Crimi, avrebbe dovuto sparargli per simulare Il rapimento; e il giorno dopo aveva notato il bancarottiere italo-americano con la gamba fasciata, dubitando nel vederlo camminare che celasse una vera ferita. Insomma, pur senza esprimere alcun giudizio, specie nelle aule di giustizia, avevo e ho la sensazione che Angelo Siino ritenesse quell’operazione organizzata dal trio Bontate, Inzerillo e Spatola una farsa allestita in onore di Michele Sindona. Ma mi sono chiesto e mi chiedo tutt’ora se ciò è verosimile: perché mai tre capimafia di grande spessore ed esperienza avrebbero deciso di partecipare a questa messa in scena? Restano, e sarebbe l’ipotesi da esplorare per la sua attualità, la matrice e la connotazione massonica dell’intera vicenda. I protagonisti, Infatti, erano tutti massoni, pur se appartenenti a logge diverse e coperte: Iside 2, la Loggia dei Trecento, Camea. A quest’ultima, la cui monumentale intestazione è Gran Loggia Madre – Centro Attività Massoniche Esoteriche Accettate, appartenevano Giacomo Vitale (il cognato di Stefano Bontate, impegnato nel finto sequestro di Michele Sindona e misteriosamente scomparso) e Angelo Siino, che aveva partecipato alla riunione fondativa a Santa Margherita Ligure, dove aveva incontrato Roberto Calvi (il banchiere socio e amico di Sindona, come lui qualche anno dopo morto «suicidato»). Michele Sindona e Joseph Miceli Crimi, invece, erano iscritti alla P2 di Licio Gelli. Stefano Bontate (che aderiva alla Loggia palermitana dei Trecento), Totuccio Inzerillo e altri capi mafia siciliani come Michele Greco avevano trovato comoda la doppia iscrizione, perché essa consentiva loro di procurarsi contatti e utilissimi favori segreti dai professionisti, politici, imprenditori, perfino magistrati e poliziotti. Il divieto di iscrizione era sopraggiunto, infatti, con l’avvento al comando di Cosa nostra dell’ala militare dei «Corleonesi». Qualche anno prima Stefano Bontate, in uno dei «viaggi di lavoro» sulla potente BMW Rossa guidata da Angelo Siino, era passato a prendere a Roma, ai Parioli, l’assicuratore Enzo Cafari, un massone calabrese con frequentazioni mafiose, e con lui, a Milano, aveva incontrato gli esponenti di spicco della ‘ndrangheta cui comunicare il divieto di Cosa nostra al sequestro dei figli di Silvio Berlusconi, progettato da alcuni «cani sciolti» ‘ndranghetisti. Ne sarebbe seguito un altro incontro di Stefano Bontate, questa volta ad Arcore, direttamente con Berlusconi, anch’egli peraltro massone iscritto alla P2 di Licio Gelli, quest’ultimo non per caso sopraggiunto in Sicilia nei giorni del finto sequestro di Michele Sindona.””

– da pag.167…””La trattativa. Della polemica insorta fra la Procura della Repubblica di Palermo e il Ros dei Carabinieri, nonché dei contatti che Angelo Siino aveva avuto con Mori e De Donno, si è discusso al processo noto come la Trattativa. Il processo si è concluso in primo grado dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo con la condanna di coloro che sono stati giudicati a vario titolo responsabili dei rapporti intercorsi, subito dopo le stragi mafiose del 1992 e del 1993, tra esponenti delle istituzioni e uomini di Cosa nostra, allo scopo di stabilire le condizioni per un armistizio della guerra scatenata dai capi-mafia Provenzano e Riina contro lo Stato. Una sentenza clamorosa che, è stato detto a commento, ha riscritto la storia italiana degli ultimi anni e ha inflitto pene severe a tre alti ufficiali dei Carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, al manager di Forza Italia Marcello Dell’Utri, al boss mafioso Leoluca Bagarella e al medico di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà. Il reato contestato è il più grave dei reati contro la pubblica amministrazione e si applica quando viene accertata una condotta individuale – o concorrente con altre, come in questo caso – che costituisce «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, ai suoi componenti singoli o a una rappresentanza di esso». La sintesi di una vicenda giudiziaria che ha fatto vivere all’opinione pubblica momenti di alta tensione politica e istituzionale è costituita dalla presentazione da parte di Vito Ciancimino,emissario di Totò Riina, del cosiddetto «papello» contenente le richieste di Cosa nostra quali condizioni per il suo disarmo militare, fra cui l’abolizione dell’articolo 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Svanita questa trattativa ne sarebbe iniziata ad un’altra, stavolta con «zu Binnu» Provenzano che avrebbe perciò «consegnato» il suo amico «zu Totò» ai Carabinieri del Capitano Ultimo.””

– da pag.172… ””Il processo Pecorelli. L’accusa di omicidio a Giulio Andreotti. Gli imputati rinviati a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise di Perugia erano tre noti mafiosi: Michelangelo La Barbera, Pippo Calò e Gaetano Badalamenti, che frattanto, a distanza di quasi 20 anni, era stato incriminato, per essere poi condannato all’ergastolo, quale mandante dell’assassinio di Peppino Impastato; un altrettanto noto esponente dell’estrema destra romana, Massimo Carminati, e infine Claudio Vitalone e Giulio Andreotti. Erano tutti accusati, pur a titolo diverso, dell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, detto Mino, fondatore e direttore di «OP – Osservatorio Politico», una rivista considerata «scandalistica». La vicenda giudiziaria aveva origine da una dichiarazione di Tommaso Buscetta a seguito (e a suo dire per effetto) dell’uccisione di Falcone, la mia vecchia conoscenza del maxiprocesso aveva deciso di indicare i politici amici di Cosa nostra, facendo il nome di Salvo Lima e, per suo tramite, di Giulio Andreotti. Spiegò inoltre che tale informazione, che confermava ciò che già circolava negli ambienti mafiosi, gli era giunta da Stefano Bontate e in seguito da Tano Badalamenti, mentre erano entrambi latitanti in Brasile, ricercati dallo Stato e dalla mafia. Come esempio di una simile amicizia, nella stessa occasione Buscetta riferì che don Tano gli aveva detto che l’omicidio Pecorelli era stato «fatto da loro», cioè da Cosa nostra, per rendere un favore a Giulio Andreotti. Il politico, infatti, era preoccupato del fatto che il giornalista potesse comprometterlo pubblicando quanto aveva preannunciato, cioè qualcosa a proposito del famoso memoriale di Aldo Moro, scritto durante la prigionia e rinvenuto a Milano nel corso della perquisizione in uno dei covi delle Brigate Rosse. Le indagini erano partite da lì e si erano sviluppate tra la Procura di Roma e quella di Perugia, divenuta competente non appena fra gli indagati era stato iscritto Claudio Vitalone, già Magistrato a Roma, con l’accusa di essere stato il mandante diretto dell’omicidio. Non ricordo se la deposizione di Buscetta, a Perugia, avvenne prima o dopo quella resa a Palermo. I due processi si svolgevano quasi in contemporanea. La riunione in un unico processo – che sarebbe stata utile per consentire una ricostruzione complessiva dei rapporti fra Cosa nostra e Giulio Andreotti, peraltro chiesta dal difensore dello stesso Andreotti – non era stata possibile a causa della posizione della Procura di Palermo che aveva rivendicato la specificità e l’autonomia dei giudizi, in sostanza dei capi di imputazione a carico del Senatore a vita: l’associazione mafiosa a Palermo, l’omicidio a Perugia. Comunque, a proposito dell’omicidio Pecorelli, Buscetta chiarì come sia Stefano Bontate sia Gaetano Badalamenti (che gliene aveva parlato, rispettivamente, a Palermo e in Brasile) attribuivano a Cosa nostra la decisione di uccidere il giornalista «nell’interesse di Andreotti» in relazione alla tragica vicenda di Aldo Moro. Nessuno dei due, però, aveva specificato il percorso del mandante, Andreotti, agli organizzatori, i cugini Salvo, agli esecutori, La Barbera e Carminati. E da questa formulazione non si spostò di un millimetro, nonostante l’insistenza del Pubblico Ministero e degli avvocati di parte civile, me compreso. Promesse e sceneggiate. Nell’aula di Capanne sfilò un numero consistente di «pentiti», forse il più alto di qualunque altro processo di mafia. Oltre, si può dire fisicamente accanto, a quelli di Cosa nostra si susseguirono i «pentiti» della banda della Magliana, che accusavano in particolare il Giudice Claudio Vitalone e Massimo Carminati. L’aspetto e il tono erano molto diversi. Antonio Mancini rispose in modo vivace, quasi allegro, alle domande dei Pubblici ministeri e dei difensori, confermando e aggiungendo ulteriori particolari e spiegazioni a quanto aveva dichiarato durante le indagini preliminari. In estrema sintesi, a uccidere Pecorelli erano stati Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera – a lui noto come a «Angelino il biondo» – su ordine di Claudio Vitalone, il quale non agiva solo nell’interesse di Giulio Andreotti, ma anche per proprio tornaconto, dato che quest’ultimo gli aveva promesso un collegio senatoriale sicuro e temeva di non essere in grado di mantenere la parola se travolto dallo scandalo provocato dalla pubblicazione del memoriale di Aldo Moro. L’impegno fu mantenuto. Vitalone divenne Senatore della Repubblica e in seguito Ministro. A distanza di vent’anni, una volta tornato in libertà, Antonio Mancini avrebbe rilasciato a «Il Fatto Quotidiano», a ridosso del processo Mafia Capitale, una lunga intervista in cui ripetè la propria accusa a Massimo Carminati per l’omicidio di Mino Pecorelli, tracciando del suo antico sodale della destra eversiva romana una biografia affatto corrispondente al genere di storia e di imputazione emergente nel processo romano. L’assoluzione. Quando il Presidente recitò la formula della piena assoluzione di tutti gli imputati, un mormorio accompagnò le ultime rituali parole del dispositivo della sentenza. Mi aspettavo, come altri e forse come gli stessi Pubblici ministeri, qualche assoluzione, a cominciare da quella di Giulio Andreotti, ma non un’assoluzione globale. A Rosita Pecorelli, con le lacrime agli occhi, e al figlio Andrea, furibondo, raccomandai di non rilasciare commenti ai giornalisti, ci avrei pensato io. A loro manifestai la mia sorpresa, riservandomi di leggere la motivazione della sentenza. La lettura delle 500 pagine della sentenza mi lascia molto perplesso. Nel frattempo il Tribunale di Palermo aveva assolto Giulio Andreotti, questa volta con formula dubitativa, dall’accusa di concorso in associazione mafiosa.””

– da pag.188…””Il garbuglio. Trascorsero tre anni e la Corte d’Assise d’Appello di Perugia, nella medesima aula di Capanne, affermò la responsabilità di Giulio Andreotti quale mandante dell’assassinio di Pecorelli, condannandolo, insieme a Badalamenti, alla pena di ventiquattro anni di reclusione, e confermando l’assoluzione degli altri imputati, ovvero gli organizzatori e gli esecutori del delitto. Avrebbe la Corte di Cassazione rimesso ordine in questo garbuglio? Ne dubitavo, tuttavia decisi che dovevamo almeno impegnarci nella difesa delle parti civili. Qualche mese dopo al Senatore Andreotti non andò bene neanche l’Appello al processo di Palermo. La Corte riformò la sentenza assolutoria, stabilendo che egli era stato colluso con la mafia siciliana fino al 1980, avendo avuto contatti diretti o per il tramite di Salvo Lima con i capimafia dell’epoca, Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate; contatti interrotti a seguito e a causa dell’assassinio di Piersanti Mattarella. Tuttavia, tale sequenza temporale comportò il non luogo a procedere per prescrizione del reato di associazione a delinquere comune. Infatti il reato di associazione mafiosa – più grave e non prescrittibile -, contestatogli dall’accusa, fu introdotto dall’articolo 416 bis soltanto nel 1982, quando Giulio Andreotti aveva cessato la frequentazione di Cosa nostra. È il noto principio del favor rei e dell’irretroattività di una nuova pena. In ogni caso l’esito del processo di secondo grado non ebbe conseguenze di poco conto, perché la Corte di Cassazione respinse il ricorso del Senatore a vita, confermando la sentenza e la motivazione della Corte d’appello e condannandolo al pagamento delle spese processuali. Eppure, negli anni che seguirono, nonostante qualche isolata protesta e rettifica, il Senatore Giulio Andreotti è passato alla storia come ingiustamente accusato di essere stato amico della mafia. Due dati, entrambi deprimenti in una società civile, restano indiscutibili. Un «vero giornalista» è stato ucciso perché non rivelasse quello che aveva scoperto facendo il suo mestiere, come altri giornalisti certamente, ma lui è rimasto senza una verità giudiziaria, vanamente perseguita. Un Senatore a vita è stato assolto dall’accusa di omicidio, tuttavia è stato giudicato colluso con la mafia siciliana nell’epoca d’oro della sua incontrastata potenza. E di un’altra cosa sono sicuro. Se un giorno Pippo Calò decidesse di raccontare quel che sa di questa tragica storia, magari convinto di non avere più nulla da perdere né da guadagnare dal suo silenzio, l’omicidio di Mino Pecorelli non rimarrebbe archiviato a carico di ignoti. Ne sapremmo molto di più anche sulla trama di affari, delitti e appoggi politici intessuta negli anni 70 e 80 fra la Banda della Magliana e Cosa nostra.””

Sin qui il libro.

Ora come di consueto, integrazioni e valutazioni. In primis, l’invito a leggere questo interessantissimo libro. Se si parla di mafia, bisogna conoscerla. Il libro ci racconta e molto bene ce la fa conoscere. Si, le stragi di mafia sono avvenute in un periodo in cui s’è tentato di reagire nei confronti di uno Stato ritenuto antagonista di questo sistema di potere. Per questo, dobbiamo ricordare che la mafia, intesa in questo senso, è qualcosa di enormemente pericoloso e purtroppo permanente. La lotta alla Mafia è storia iniziata nel dopoguerra in Italia. Pensare che la nascita della prima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, altre seguiranno nel tempo, sino ai nostri giorni, è del 12 dicembre 1962 (Ricordo che il grande Comandante Generale dell’Arma Giovanni De Lorenzo inviò, come consulente, il Generale Roberto Cardinale, già Comandante della Legione di Messina, divenendo con la prematura morte di mio Padre, a 58 anni per malattia, Comandante della 4^ Brigata territoriale della Capitale) ed ha un iter formativo tormentato. Attraverserà tre Legislature per un totale di tredici anni. In sede parlamentare se ne discusse dal 1948, dopo la strage di Portella della Ginestra dell’anno precedente, con una proposta di Legge. L’ipotesi fu respinta dalla maggioranza, che giudicava la mafia un fenomeno locale, circoscritto nel “clima e nell’ambiente siciliano”. E la stessa strategia si ebbe nel 1954 e nel 1956 quando, a seguito di forti richieste di Parlamentari, il Governo rispose che “..la mafia non esiste più, si è sciolta nella criminalità comune..”. La proposta di legge riapparve il 26 aprile 1961, dopo un voto finalmente unanime del Senato che ne ravvisava l’urgenza. La Commissione iniziò ad elaborare una relazione con proposte che, intanto, portava nel 1965 alla prima Legge Antimafia, di grande efficacia, che sarà nel tempo base per tutte le normative specifiche. Nella citata relazione, per la prima volta, si evidenziava una realtà sconcertante: a Palermo, città emblematica e ricca a dismisura, dal 1952 al ’72 le banche erano cresciute del 586 per cento mentre in Italia dell’86; le società per azioni in Città aumentarono del 202 per cento mentre nel resto d’Italia del 30. Per ricchezze la Sicilia, e Palermo in particolare, rappresentavano un vero e proprio “Eldorado”. Due mesi prima di essere ucciso, l’On. Pio La Torre, molto allarmato, chiese al Presidente del Consiglio Spadolini di considerare la Mafia problema nazionale e, nella circostanza, consegnò un dossier sulle strategie di contrasto. Chiese anche di inviare il Generale Dalla Chiesa, da Lui ben conosciuto e stimato negli anni precedenti, in Sicilia, progetto che si concretizzò appena un mese dopo con la nomina dell’alto Ufficiale a Prefetto di Palermo. Il 30 aprile, quindi, moriva Pio La Torre. Intorno alla sua autovettura, tra gli altri investigatori subito accorsi, c’erano quattro personaggi noti a Palermo: il Capo dell’Ufficio Istruzione, Rocco Chinnici, i Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il Commissario Ninni Cassarà, che purtroppo avranno stessa amara sorte. Pensare che era presente ai funerali anche il Generale dalla Chiesa, appena insediatosi come Prefetto di Palermo, che alla domanda dei giornalisti del perché dell’assassinio di La Torre, rispose ermetico: “Per tutta un vita!”. Anche il grande Generale-Prefetto cadrà sotto i colpi dei killer dei famigerati Corleonesi il 2 settembre successivo, ed anche per Lui si potrà dire, con le Sue stesse parole: “Per tutta una vita!”; sì, proprio per tutta una Vita di coraggio e dedizione allo Stato! Questa la tragedia nazionale delle morti annunciate e non impedite, la rassegnazione per una criminalità di coppole e colletti bianchi che ordivano strategie terroristiche in barba alla reazione dei cittadini onesti che in questa Italia continuano a contare come il due di briscole. Questa la Politica, sorda e avida, che può essere definita del doppio binario: la mattina in abito scuro ai funerali di Stato e la sera a trescare con Cupole nere di malaffare schifoso e verminoso. La triste storia delle esecuzioni continuò imperterrita, come forse non tutti ricordano. A pochi mesi dall’inizio del processo contro la Cupola mafiosa istruito da Giovanni Falcone, vennero uccisi i Commissari di Polizia Ninni Cassarà e Giuseppe Montana. Il primo, aveva la colpa di aver redatto il Rapporto Giudiziario firmato congiuntamente al bravissimo Capitano dei CC. Angiolo Pellegrini, dell’Anticrimine di Palermo: “Michele Greco + 61”, rapporto su quel “Papa” della mafia, Michele Greco, che verrà arrestato il 26 febbraio 1986 dall’ottimo Colonnello Giuseppe De Gregorio e dai suoi Carabinieri del Comando Palermo 2. A seguire, lo scandalo dell’assoluzione, il 13 marzo 1983, degli assassini del valoroso Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, cui fece seguito, il 13 giugno, la morte oltremodo emblematica, attesa la tempistica da rituale tanto cara alla Mafia, del Suo successore nella stessa Compagnia di Monreale, il Capitano Mario D’Aleo, che aveva continuato nelle medesime indagini del Collega. Anche lì, intorno al suo giovane corpo esanime (aveva nemmeno trent’anni), i Magistrati Rocco Chinnici e Paolo Borsellino; anch’Essi vivi ancora per poco. Il 29 luglio, infatti, fu la volta di Chinnici, ucciso con auto bomba. La colpa, si ritenne, è che volesse indagare i cugini Salvo, i noti esattori ultraprotetti e ultrapotenti. Continuando, nel 1988, il 25 settembre, fu assassinato il Presidente della Corte di Appello Antonino Saetta, ucciso con il figlio Stefano, responsabile, secondo le logiche mafiose, di aver esemplarmente condannato i mafiosi che in primo grado erano stati scandalosamente assolti per la morte del Capitano Basile. E ciò avvenne appena nove giorni dopo il deposito della citata sentenza di condanna! Seguendo questa cronaca di morte, il 4 aprile 1992, cadde in un agguato il Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, ottimo conoscitore della mafia dell’ agrigentino e valido collaboratore del Procuratore Borsellino. Si giunse, così, alle stragi di Capaci e via D’Amelio, sulle quali nulla si può aggiungere, tranne che sentita esecrazione, tanto sono note agli Italiani che hanno perpetuo ammirato ricordo per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quindi, ora, che fare? Oltre al ricordo commosso e direi rammaricato per questi veri e propri Eroi della Patria, in primis va indirizzata coralmente la più forte richiesta alla Politica, quella con la “P” maiuscola, di collocare ai primi posti dell’attuale grave contingenza nazionale la lotta alle Mafie, non con chiacchiere di facciata ma legiferando per norme adeguate. E questo, in particolare, va fatto per la corruzione, perché corruzione e mafia sono due facce della stessa medaglia. Poi, ancora, la Politica deve sapere estromettere gli elementi gravati da reati dal suo contesto, e tutto questo “senza se e senza ma”, ben ricordando che il Paese vive oggi una crisi economica senza precedenti, in cui è stato dimostrato che la criminalità, in possesso di enorme liquidità di danaro, si va ad impossessare di aziende in difficoltà, praticando l’usura a tassi stratosferici e strozzando, così, l’economia mai stata così fragile, soprattutto in questo tragico momento di dominio del virus. Un Paese, il nostro, con fortissime tensioni sociali e scosso anche da ipotesi di terrorismo, ragione per cui ci si deve attivare subito, una volte per tutte, anche per far sì che il sacrificio dei tanti benemeriti Servitori dello Stato, prima ricordati, non sia stato vano!

Ho finito.

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