Roma

Pierpaolo Pasolini: di verità si può anche morire?

pasolini libro copertinaRoma, 4 novembre – Simona Zecchi ha fatto un gran lavoro di ricerca nel volume “Pasolini, massacro di un poeta” (Ponte alle Grazie editore, settembre 2015), un libro da leggere con interesse, nel quale sono state pubblicate foto e altri documenti inediti.

Molto interessante l’articolata  postfazione del Magistrato romano Otello Lupacchini, titolare di complesse indagini sulla criminalità romana ed in particolare del primo processo (denominato “Colosseo”) sulla banda della Magliana dal titolo, appunto: “Di verità si può anche morire”. Quarant’anni dopo, l’autrice ha compiuto un’analisi approfondita delle carte processuali dell’omicidio Pasolini, avvenuto il 2 novembre 1975, rovistando per tre anni negli archivi di mezza Italia, avvicinando alcuni testimoni ancora in vita. Le fotografie, talune davvero inquietanti, evidenziano inequivocabilmente che ci fu una mattanza quella notte all’Idroscalo di Ostia. Si inizia con le minacce telefoniche che il Poeta ricevette, come acquisito nella seconda inchiesta iniziata nel 2010 e terminata quest’anno, senza però l’acquisizione di nuovi elementi indizianti, a seguito delle dichiarazioni (nell’aprile 2010) dell’attrice  che lavorò nel film “Il fiore delle mille e una notte”, Ines Pellegrini (pag.17), che racconta :”…Pasolini aveva paura e qualche mese prima di morire fece cambiare il numero di telefono perché riceveva minacce…”.

Un aspetto ancora misterioso della vicenda spunta dalla contro-inchiesta, svolta parallelamente a quella giudiziaria del tempo, pubblicata da Oriana Fallaci su L’Europeo, nella quale un testimone aveva riferito alla giornalista del contenuto di una telefonata da lui ascoltata il 30 ottobre 1975, prima dell’omicidio, in un bar dei portici della stazione Termini, nella quale una persona affermava: “Mi raccomando ho un appuntamento con Pasolini, fatevi trovare lì…”. Il testimone, un barista, rintracciato dagli inquirenti, ha confermato il contenuto di quell’articolo ma, secondo quanto riferito nella richiesta di archiviazione, non è stato in grado di confermare se la persona al telefono fosse Giuseppe Pelosi, l’unico condannato per l’omicidio dello scrittore. Quindi, la presenza di altre persone all’Idroscalo, se provata anche sulla base della telefonata raccontata dalla Fallaci, darebbe al delitto i tratti di un agguato. È questo un elemento fondamentale dell’inchiesta che potrebbe riscrivere la versione ufficiale, confermata in tutti i gradi di giudizio, secondo la quale Pelosi incontrò Pasolini da solo per motivi sessuali. Al riguardo va detto che (pag.33) “…per molti anni, l’idea che Pasolini, con i suoi gusti e le sue abitudini private, possa aver perso la vita per motivi diversi dal suo orientamento sessuale e dal modo in cui viveva la sua omosessualità non ha minimamente attraversato la testa e smosso la penna di molti degli intellettuali e dei giornalisti…”. Una delle piste investigative seguite dagli inquirenti nell’inchiesta è quella del furto, avvenuto nell’estate 1975, delle bobine del film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (pag. 53), finito di girare da Pasolini poco prima di essere ammazzato. Pista importante perché l’omicidio potrebbe essere collegato proprio alla restituzione del materiale rubato. Gli investigatori sono riusciti a individuare l’intermediario che, secondo il regista Sergio Citti, collaboratore e amico di Pasolini, avrebbe messo in contatto lo scrittore e un gruppo di persone che avevano effettuato il furto. Questo intermediario, indicato da Citti come “Sergio P.”, ha ammesso di aver parlato con lui del recupero dei negativi, senza però fornire altri elementi sugli autori del furto e sulle altre persone coinvolte. Uno degli elementi investigativi più interessanti emersi dalle nuove indagini avviate nel 2010 dalla Procura di Roma (e terminate nel 2015), è stata la testimonianza di un ex ragazzo di borgata, ora pittore, Silvio Parrello. Il quale ha riferito alla Procura le confìdenze ricevute da alcuni conoscenti. Gli inquirenti sono così risaliti a queste persone che, stando a Parrello, sapevano della presenza all’Idroscalo, la notte fra il 1 e il 2 novembre 1975, di un enigmatico personaggio, Antonio Pinna, giunto sul posto con un’Alfa Gt 2000 identica a quella di Pasolini. Il Pinna, come scritto, era scomparso nel febbraio del 1976 e nel 1988 il Tribunale civile di Roma ne aveva decretato la “morte presunta”. Pinna, comunque, non era un personaggio qualunque; faceva parte della banda di Jacques Berenguer, il marsigliese che nella Capitale negli anni Settanta commise reati gravissimi e sequestri di persona. Nella richiesta di archiviazione emergono le reticenze degli informatori di Parrello, uno dei quali, sottoposto a ulteriori interrogatori, non solo ha ammesso il contenuto dei colloqui avuti con il pittore, ma ha anche fatto riferimento ad altri autori dell’omicidio tuttora in vita. Ancora, le analisi del Dna sui 5 profili genetici individuati dal Ris di Roma (da pag.87), effettuate sui reperti rinvenuti sulla scena del delitto, non hanno infatti consentito di identificare altre presenze.  Secondo l’autrice, i killer sono un manipolo di fascisti che hanno usato catene, tondini di ferro, forse bastoni, una fragile tavoletta di legno già spezzata prima dell’aggressione con su scritto l’indirizzo delle baracche. Le fotografie non lasciano spazio a dubbi; un “rito tribale” di un commando nero. In base a quanto acquisito, due automobili similari (Alfa Romeo 2000 GT) hanno sormontato il corpo di Pasolini, sul quale sono stati rinvenuti i segni del battistrada di motociclette come sul terreno. Pasolini non doveva uscire vivo dal massacro, per questo ognuno degli intervenuti era funzionale nel suo ruolo. Altro filone d’indagine che andrebbe approfondito è quello  relativo a Marcello   Dell’ Utri, ex Parlamentare di Forza Italia. Entra nell’inchiesta per alcune dichiarazioni rilasciate alla stampa nel marzo 2010 a proposito della scomparsa di un capitolo di “Petrolio”, ultima fatica incompiuta del poeta uscita postuma nel 1992. Dell’Utri aveva fatto intendere che la morte di Pasolini era da collegarsi  a quella del Presidente dell’Eni Enrico Mattei, il cui aereo, precipitato il 27 ottobre del 1962 a Bascapè, secondo le indagini era stato oggetto di  un attentato. “Una persona di circa 60 anni – ha confermato ai Magistrati l’ex Senatore – mi aveva avvicinato dicendomi di essere in possesso di importanti documenti relativi a Pier Paolo Pasolini e che si trattava del capitolo di “Petrolio”, che era stato trafugato e dunque mai pubblicato (pag. 191). Dell’Utri, sentito dalla Procura di Roma nel 2011(da pag.201), aveva ridimensionato però il tenore e la valenza di ciò che aveva precedentemente affermato: “In buona sostanza – scrivono i PM nella richiesta di archiviazione – l’escusso ha modificato la versione resa alla stampa, fatta, per sua stessa ammissione, per ragioni pubblicitarie”. Concludono i Magistrati: “Il tenore delle dichiarazioni rese da Dell’Utri, pertanto, nell’impossibilità di svolgere ulteriori riscontri, non ha offerto alcuno spunto investigativo percorribile e utile dal punto di vista giudiziario”. Interessanti i contatti del Poeta con esponenti dell’eversione nera. Tra questi,  figurano il Prof. Aldo Semerari, noto psichiatra criminale ed esponente del neo fascismo rivoluzionario di quegli anni, nominato (da pag.139) tra i periti di parte  nel processo Pasolini, e Giovanni Ventura, tra i maggiori imputati del processo sulla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), poi scagionato. Ma cosa ha mosso il dialogo fra lo scrittore e l’editore di destra Ventura? Chi ha iniziato per primo? Da una ricerca sono affiorate quattro lettere inedite di Ventura indirizzate a Pasolini, due manoscritte e due dattiloscritte del 1975 (l’anno       dell’ omicidio). Scrive Ventura che nel processo possibile (di Piazza Fontana) “..ci sono tutti i tuoi indiziati..”. Sono queste le risposte che lo scrittore cercava? Le prove che davano concretezza alle sue invettive? Le risposte di Pasolini non esistono o meglio non sono presenti in alcun archivio: sono scomparse. Certamente, i contenuti delle lettere fra i due uomini hanno potuto allarmare qualcuno…per un’inchiesta in corso. Anche le dichiarazioni di Laudovino De Sanctis (pag 148) soprannominato “Lallo lo Zoppo”, tra i maggiori boss della delinquenza organizzata della Capitale (noto per il sequestro e l’uccisione dell’industriale del caffè Palombini) il quale, in un’intervista pubblicata per la prima volta, sostiene che “…quella sera ce stava tutta Roma lì, tutta la Roma criminale e violenta, agli ordini non so di chi, ma se ce stava Sergio (Placidi) è stata ‘na storia strana. Se sapeva nell’ambiente delle bobbine e che gli avessero chiesti due miliardi, e Pasolini non ce li aveva; quella sera gli avrà portato ‘na milionata pe’ chiude …ma volevano de più…..Ma secondo me non è stato ammazzato pe’ soldi….credo che quel deficiente de Pelosi non sapesse nulla….Pasolini è stato ammazzato perché dava fastidio….”

Quarant’anni dopo, alla domanda perché è stato ucciso Pasolini, è ora possibile rispondere: per la forza delle sue parole, non per quello che aveva scritto ma per quello che avrebbe potuto continuare ancora a scrivere. Però quarant’anni non sono bastati per arrivare alla verità. Il Parlamento potrebbe riuscirci? Dopo il “sì” del Gip all’archiviazione delle indagini, nel 2015, il caso si sposta a Montecitorio, dove alcuni Deputati, sostenuti dal legale di un familiare dello scrittore, hanno depositato una proposta di legge  per l’istituzione di una Commissione Parlamentare d’inchiesta per cercare la verità e fare luce sui punti ancora oscuri legati all’omicidio del poeta-regista.

Possiamo concludere affermando  che davvero si può morire di verità! 

 

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