Spettacolo

Teatro Eliseo – Ivanov del giovane Cechov con la regia di Filippo Dini

teatro IVANOV Notari Zerbinati Falini Pepe PannelliLa tragedia di un uomo inutile

Roma, 4 novembre – Al fondo bisognerebbe andare a cercare negli anfratti del personaggio Ivanov di Anton Cechov, come di una persona, le motivazioni profonde che hanno contribuito a cucirgli addosso quel sistema di attese, quelle speranze, anche l’ottimismo del vivere che poi non si è convertito in capacità di vita. E bisognerebbe vedere in controluce le coincidenze fra realtà e sogno e cercare di spiegare l’esistenza sulla base di esse. A volte la ricerca può limitarsi al cosiddetto effetto forbice individuando in esso quelle serie di malinconie e tetraggini, quelle forme alienanti di inanità che non si appoggiano sulla realtà ma la muovono.

Così il personaggio di Cechov, eroe modesto senza gloria, che colonizza di sé il Teatro Eliseo di Roma, si muove entro gli spazi di un dramma che è tutt’altro che polveroso o stantio e che non esprime la volontà ardente e la determinazione necessarie a sconfiggere lo spleen (il celebre spleen cecoviano) che l’attanaglia.

Il merito è certo di una visione del teatro moderna, come quella del regista/attore Filippo Dini che fa della prima opera drammaturgica del ventisettenne maestro russo, allora già messosi in luce per la ricca novellistica, un testo fruibile per la serie di interrogativi che pone alla vigilia della grande esplosione delle indagini psicoanalitiche freudiane che avrebbero aperto nuove tracce nella comprensione dell’animo umano e nella ricerca delle motivazioni dei suoi comportamenti, come della crisi dei valori nella quale può riconoscersi anche l’uomo di oggi.  

Cechov immagina un personaggio out rispetto agli schemi drammaturgici del suo tempo,che privilegiavano, come lui stesso lamenta, come protagonisti angeli, mostri e buffoni e accende l’occhio di bue su una figura umana profondamente reale, tanto da conchiudere in sé le antitesi di un ossimoro. Così è di scena la non vita di un uomo indeterminato e superfluo, inutile e incapace di essere protagonista sempre. Cechov apre uno spiraglio sottile e ci fa assistere all’ultimo anno di vita di quest’uomo, border line tra il comico e il drammatico. Ivanov non ama più la moglie, che ha sposato cinque anni prima, dopo che lei aveva rinunziato alla propria confessione alienandosi la benevolenza dei parenti ebrei. Lei era ed è rimasta lontana dal suo mondo di piccolo proprietario terriero con nebulose velleità di impegno sociale, presto sbiadite in obbedienza ad una natura fragile e ad un’anima mediocre incapace di elevarsi.

La sua realtà è nel giro d’orizzonte del suo ristretto mondo fatto di arrampicatori sociali, piccoli imbroglioni, gente che vive alla giornata, spesso di espedienti, senza altra finalità che la sopravvivenza. C’è Lebedev, sovrintendente della tenuta, che non sorge dalle profondità del suo esistere volgare, del suo materialismo gridato. C’è sua moglie, donnina avida e interessata. C’è Sabel’skij, cinico e gaudente in cerca di sollazzo con la giovane e sensuale vedova Babakina, che gli porterebbe in dote tanto da riordinare le finanze. C’è L’vov, il medico idealista che vorrebbe suscitare in lui un senso di responsabilità e di determinazione ora che Anna Petrovna è ammalata di tisi e per lei sarebbero necessarie lunghe cure in ambiente più congeniale, più salubre, in Crimea, come consiglia. Ma il costo di un soggiorno, specie se dovrà essere accompagnata, è eccessivamente oneroso, secondo Ivanov. Sarà Anna a scoprire il suo tradimento con la giovane Saša, ultimo crudele fallimento prima della morte, forse anche provocata dal dolore di quell’inganno. Morte che apre a Ivanov la possibilità di realizzarsi con la giovane innamorata. Ma la sua   sarà una fuga definitiva che si spegne come l’eco di quello sparo che gli toglie la vita, proprio mentre si appresta il matrimonio.

Questa in estrema sintesi la trama che immerge in una dimensione tragica e al tempo stessa assurda, grottesca dell’esistenza, ben sottolineata dal regista e attore Filippo Dini in questo suo allestimento, prodotto da Fondazione Teatro Due e Teatro Stabile di Genova: una messa in scena con 9 attori (lo stesso Filippo Dini e Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe), che creano l’affresco di un’umanità alla fine di un ciclo storico, una società sull’orlo del baratro che avverte l’arrivo dell’apocalisse che di lì a poco spazzerà ogni cosa. Il testo ha la nuova traduzione di Danilo Macrì, le scene e i costumi sono ideati da Laura Benzi, le luci disegnate da Pasquale Mari e le musiche scritte da Arturo Annecchino.

Quel che resta di questo spettacolo è certamente la dimensione corale della scoppiettante regia che si muove in crescendo trovando un ritmo da teatro francese specie nella seconda parte, è il linguaggio leggero, è la qualità della recitazione curatissima degli attori bravissimi e ben coordinati, sono anche le scene mobili con le pareti che si allargano e si restringono per tutti i quattro atti, creando luoghi deputati pronti ad arredarsi delle parole espresse dai protagonisti, dal loro inquieto agitarsi.

Quelle scene che, a sipario aperto su un palcoscenico deserto dove Ivanov seduto sfoglia un libro, hanno accolto il pubblico in sala.

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