Spettacolo

Teatro Argentina – Carmen con la regia di Martone e l’Orchestra di Piazza Vittorio

carmen iaia forte teatro argentinaBrama di libertà

Roma, 26 marzo – “Carmen”, anzi “Lacarmén” di Enzo Moscato, nell’adattamento e per la regia di Mario Martone, come dire il Gotha del teatro contemporaneo napoletano, incanta il Teatro Argentina.

Bionda e riccia, questa Carmen si appropria delle curve morbide, procaci e voluttuose di Iaia Forte, delle sue labbra piene, dei suoi occhi azzurri… Sì, Carmen ha gli occhi azzurri e in una Napoli che ha l’eternità delle sue problematiche di vita, delle sue arti di arrangiarsi, del suo sottomondo di prostitute e bordelli, Napoli del dopoguerra dove la fame giustifica tutto, o degli anni ’80, i miserabili anni ’80 del dopo terremoto, quando la malavita organizzata proclamò i suoi re, vive accecata la sua rabbiosa parabola.

Perché questa Carmen non muore, la feroce gelosia di Don Cosé, Roberto de Francesco, il bel dragone che per un momento aveva smorzato la sua sete d’amore, non anima il coltello per un colpo al cuore ma per spegnere quegli occhi conturbanti, per impedirle di volare verso gli spazi aperti. Perché la mitica Carmen, un archetipo, un assoluto, vive della costanza d’un desiderio che non trova soddisfacimento, e non cerca altro.

Lei è proiezione verso la libertà.

Anche di amare, persino un pavone come ‘O Torero (Houcine Ataa), tronfio e consapevole delle folle di donne adoranti, uomo da copertina, con lo spessore di uno specchio. Qui, Escamillo, ‘O torero’, canta arabo e veste una pittoresca giacca sfacciatamente dorata. Eppure, sarà il capriccio, ma dopo il bravo ragazzo Cosè chi trovare di più eccitante?

Questa Carmen che si collega più alla novella di Prosper Mérimée che al libretto dei poeti Meilhac e Halévy (che si erano presi molte libertà, compresa la creazione di un personaggio come Micaela), ripescata dalla memoria di Cosè poco prima di morire impiccato, questa Carmen che parla e si racconta sulla quale Georges Bizet ha costruito un’architettura di melodie indimenticabili, vive di contaminazioni.

Senza esserne succube si appropria dei temi celebri, anche per il massiccio utilizzo nella pubblicità, dell’opera lirica, ma non ignora il retroterra del teatro musicale di questa città, da Raffaele Viviani alla sceneggiata, forma d’arte popolare che raggiunse l’eccellenza con Mario Merola, insomma tutte le radici che affondano nella cultura più genuina vengono sollecitate.

A farlo è la straordinaria, particolare Orchestra di Piazza Vittorio, che di contaminazioni, innesti e coinvolgimenti vive. Tutti i musicisti sono provenienti da ambiti geografici e culturali diversi, e inoltre sono in grado di esibirsi anche come attori. Il direttore Mario Tronco, coadiuvato negli arrangiamenti da Leandro Piccioni, ha costruito una partitura di grande effetto, allegra, chiassosa e popolareggiante, e molto, molto coinvolgente.

Lo spettacolo, una produzione congiunta del Teatro Stabile di Torino e del Teatro di Roma, ha un cast di un amalgama perfetto, su cui spicca il bravissimo Ernesto Mahieux, Lilà Pastià, il pappa e taverniere, ruolo esteso rispetto agli antecedenti letterari e musicali. L’estremo e corrotto tenente Zuniga è indossato a pelle da Giovanni Ludeno. Tutto il resto del cast merita di essere segnalato, da Anna Redi, Mercedes, anche coreografa dello spettacolo, a Francesco Di Leva, O’ Dancario, a Viviana Congiano, Dorotea, a Raul Scebba, ‘O Rinacciato, che suona in orchestra xilofono, vibrafono e percussioni, a Kyung Mi Lee, Fraschita, è anche violoncellista:

Gli attori si muovono in un allestimento semplice ma di grande effetto e funzionalità, che si basa su pochi elementi scenici mobili, creati da Sergio Tremonti, che si articolano a formare i vari luoghi della vicenda. I costumi di Ursula Patzak, street style, raccontano con fantasia una città stracciona e violenta ma anche piena di allegria e di passione, crocevia di un’umanità trasmigrante per le rotte del Mediterraneo, Tunisi, Andalusia, Francia e Napoli, appunto.

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