La vicenda fiumana di nuovo alla ribalta… Il Sommo Gabriel Ariel D’Annunzio…

Zagabria: "Proprio nel giorno dell'anniversario di Fiume; turba i nostri rapporti di amicizia"

Roma, 29 settembre 2019 – Su “La Repubblica” del 12 settembre abbiamo letto questo articolo: “”Trieste. L’avevano chiamata la statua della discordia. E puntualmente, poche ore dopo l’inaugurazione dell’opera dedicata al vate Gabriele D’Annunzio in piazza della Borsa a Trieste, sono scoppiate le polemiche. Con una nota di protesta consegnata all’ambasciatore d’Italia a Zagabria, la Croazia ha “condannato nel modo più deciso” l’inaugurazione della statua “proprio nella giornata che marca il centenario dell’occupazione di Fiume. È un atto che contribuisce a turbare i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due Paesi”.
La scultura, realizzata dall’artista bergamasco Alessandro Verdi, raffigura il poeta pescarese a gambe accavallate seduto su di una panchina mentre è assorto nella lettura, con il gomito del braccio sinistro appoggiato su di una pila di libri. “Tutta l’Italia è piena di viali e scuole dedicate a D’Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili”, ha dichiarato il Sindaco nel corso dell’inaugurazione. D’Annunzio è stato un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui. Sono molto soddisfatto di avere inserito la sua statua che si va a unire a quelle di Saba, Joyce e Svevo””.
(Sull’argomento mio articolo recente: “Si discute ancora di Gabriele D’Annunzio..? Vediamo come e dove…” www.attualita.it’.del 29 giugno 2019)
Intanto, informiamo che la biografia definitiva su D’Annunzio è uscita in Francia, per l’editore Grasset, oltre 700 pagine di studio, sotto il titolo D’Annunzio le Magnifique, gran libro di Maurizio Serra, mentre in Italia, paradossalmente, il titolo del bel libro, dal titolo “L’Imaginifico Vita di Gabriele D’Annunzio”, è stato pubblicato nell’agosto scorso, un anno dopo, per i tipi di NERI POZZI EDITORE…, ovviamente acquistato e letto con il consueto grande interesse da cui traggo spunti sulla vicenda fiumana…
…(Da pag. 467) Fiume,i cinquecento giorni (pomeriggio del 12 settembre 1919-“Natale di sangue“ 1920). Rendere comprensibili in poche pagine i quasi “500 giorni“ di Fiume rappresenta una sfida a tutti gli sforzi di sintesi e di semplificazione. Quella spedizione, avventura o epopea – comunque la si volle e voglia definire – fu di una tale ricchezza in tutti i campi e in tutte le direzioni che è stato più facile, con il senno di poi, farne una caricatura o seppellirla sotto la massa rassicurante degli stereotipi. Anche i ricercatori di vaglia hanno fatto fatica a cogliere e a trasmettere l’originalità del progetto. Fiume non fu un evento “ludico“, ma il sintomo di una febbre che avrebbe conquistato tutta l’Europa fra le due guerre, ma qui con risultati molto meno funesti che altrove. L’impresa dannunziana, ha scritto un sensibile interprete contemporaneo, “scioglieva le briglie all’istinto di ribellione contro l’ipocrisia di un mondo dominato dagli interessi economici (…) anticipava Charlie Chaplin e Che Guevara, la guerra di Spagna e il 68 (ovviamente nella parte concettual/culturale, non certamente in quella italico degenerata – n.d.a.), il movimento dei paesi non allineati e il rifiuto di un ordine mondiale pensato a Washington“. Questa avventura-epopea non ha mai goduto di buona fama e ha incontrato, fin dall’inizio, quasi soltanto avversari: da un lato, lo Stato liberale in una condizione preagonica a Roma, assieme ai suoi alleati della grande guerra; dall’altro, i Movimenti rivoluzionari usciti dal conflitto, il bolscevismo, poi il fascismo, che spiano le mosse di un concorrente, di cui in realtà diffidano. Durante il ventennio mussoliniano – che si insedierà in Italia meno di due anni dopo il fallimento dell’avventura, ma in parte grazie a essa – l’eredità di Fiume fu messa rapidamente da parte… (Da pag.470) Una parte cospicua dell’ Intellighenzia internazionale si metterà in viaggio per Fiume, quasi anticipando la rivoluzione spagnola di vent’anni dopo, ma con conseguenze meno cruente.. Lenin e il suo allievo Gramsci seguiranno attentamente l’evoluzione fiumana… (Da pag.490) E nella notte fra il 12 e il 13, tutte le formazioni dell’Esercito regolare italiano che stazionano in città, fra cui la Brigata scelta Regina e i Carabinieri Reali, si sottomettono all’autorità del Comandante. Gli ufficiali superiori si eclissano con discrezione, ivi compreso lo sventurato generale Pittaluga, quello che non aveva voluto sparare al petto di Ariel a Ronchi. La stessa adesione entusiastica giunge dagli equipaggi dei quattro vascelli da guerra ancorati al porto. I volontari affluiscono da tutta la penisola. Numerosi, tra loro, gli aviatori che hanno combattuto a fianco dell’orbo veggente, due dei quali si schianteranno al suolo nella frenesia di raggiungere Fiume. Sono per la maggior parte ufficiali subalterni del glorioso Complemento (provenienti dalla Vita…- n.d.a.), non tutti però: il generale Sante Ceccherini, che, oltre alle decorazioni di guerra, vanta una medaglia olimpica di scherma, raggiunge a Fiume il figlio sottotenente. Tre ammiragli – Umberto Cagni l’esploratore del polo nord, Rizzo, l’eroi dei Mas , e Millo, governatore della Dalmazia – appoggiano apertamente la spedizione: in realtà, cercheranno di favorire un accordo tra D’Annunzio e il Governo. Le navi alleate rimpatriano le loro truppe senza incidenti. Presto a Fiume non ci sarà neanche un ufficiale né un soldato inglese, francese, americano e, naturalmente, jugoslavo. Il contingente interalleato si è dissolto, senza sparare un solo colpo. È la prima vittoria, effimera quanto si vuole, ma molto significativa, degli “insorti” sulle (non) deliberazioni della conferenza di pace.
( Da pag. 491)… Di qui, nuovamente, la domanda se il Governo Nitti abbia tollerato questa diserzione di massa per calcolo, per evitare il rischio di una guerra civile o sulla base di un’intesa segreta con D’Annunzio. Le tre ipotesi non si escludono a vicenda; ma la terza deve essere, a nostro avviso, riformulata, nel senso che non ci fu intesa, né allora né dopo, ma contatti e negoziati sicuramente. Non possiamo ricostruire minutamente le estenuanti trattative che proseguiranno sul filo dei mesi tra il comandante e gli emissari di un Presidente del consiglio, l’ex amico della giovinezza romana e napoletana (ma sembra averlo dimenticato), ora pubblicamente gratificato con l’epiteto di “sua indecenza Francesco Giuseppe Cagoia”. Dietro agli insulti scatologici da un lato, e le minacce di bombardare gli insorti dall’altro, si disegna una strategia diplomatica che ha come mediatore principale il Sotto capo di Stato Maggiore Badoglio, che è anche alla guida del Commissariato militare straordinario per la Venezia Giulia, costituito il 13 settembre, ossia all’indomani della spedizione. Quel che emerge chiaramente è che D’Annunzio, salvo che nei peggiori momenti di esaltazione e di intossicazione narcisistica, sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto abbandonare il potere; ma voleva farlo alle migliori condizioni possibili, per garantire l’italianità della propria “creatura“ e il rinnovamento ideale della nazione. Non era un calcolo sbagliato; ma gli mancò la capacità di tradurre in un “disegno politico coerente“ (De Felice), fino al “Natale di sangue“ che avrebbe potuto essere evitato, se il Comandante non avesse continuato a giocare al rilancio, quando la partita era irrimediabilmente perduta. Un terzo personaggio si farà strada un po’ alla volta: Mussolini. Se aveva preso posizione solo all’ultimo minuto e tra persistente ambiguità in favore della spedizione, continuava non di meno a mantenere i contatti con il Governo e con lo stesso Nitti per interposti emissari. Esasperato, D’Annunzio, una settimana dopo l’arrivo a Fiume, gli invierà una missiva violenta per stigmatizzare il suo comportamento: “E voi tremate di paura! Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abbietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale”: è sempre Nitti a essere gratificato con questi delicati epiteti. Mussolini ne pubblicherà sul suo quotidiano una versione emendata dalle critiche che lo riguardano, limitandola all’appello del Poeta per una sottoscrizione popolare in favore della città, perché “dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà“. La colletta raccoglie una somma abbastanza cospicua, il che permetterà a Mussolini di presentarsi il 7 ottobre a Fiume con un assegno in una mano e un progetto di colpo di Stato nell’altra. È un’eventualità del tutto irrealistica, e lo sanno entrambi; ma la voce, che viene diffusa ad arte, serve per fare pressioni sul Governo. Mussolini continuerà a fingere di oscillare tra Nitti e D’Annunzio per scalzare l’uno e l’altro. Quando deciderà che è finalmente giunto il momento di marciare su Roma, tre anni dopo, i suoi due concorrenti, ormai fuori gioco, non potranno più nuocergli.
(Da pag. 517)…L’annuncio della Costituzione fiumana fu dato durante un discorso al teatro ‘La Fenice’ di Venezia, il 12 agosto. Il Comandante si limitò a parlare della volontà di fondare “in Fiume d’Italia, nella marca orientale d’Italia, lo Stato libero del Carnaro“, senza maggiori precisazioni. La carta propriamente detta, datata 27 agosto, sarà letta al pubblico da lui in persona il 30, sempre al Teatro ‘La Fenice’, e poi pubblicata il 1° settembre nel suo bollettino ufficiale. Ma egli attenderà ancora di ratificarne la promulgazione ufficiale fino al 12 settembre, per farla coincidere con l’anniversario della marcia su Ronchi, ma soprattutto per verificare se nel frattempo ci fossero reazioni a Roma, che invece non si verificarono. Il 15, infine, fu costituito il governo provvisorio della reggenza e composto da “rettori“, ossia ministri, alcuni dei quali di fama internazionale, come l’economista Maffeo Pantaleoni alle Finanze e tesoro – da cui si sarebbe poi allontanato per dissensi sulla politica economica della reggenza, ritenuta troppo dirigista – e il medico e scienziato Lionello Lenaz alla Pubblica istruzione.
(Da pag.536)… E in base a quanto stabilito dall’armistizio firmato tra il Generale Ferrario (in rappresentanza di Caviglia), Host-Venturi (Comandante delle milizie fiumane) e Gigante (Podestà di Fiume), i legionari, disarmati ma in uniforme con gradi e decorazioni, devono cominciare a lasciare la città il giorno dopo, a gruppi di 300 uomini per volta. L’armistizio escludeva ogni incriminazione per diserzione o alto tradimento. Ci saranno, tuttavia, istruttorie giudiziarie per recrimini di diritto comune, soprattutto nei casi di elementi noti per precedenti penali.
(Da pag.539)… Il 18 gennaio, dopo la partenza dell’ultimo contingente dei suoi uomini, come dovere di un capo, D’Annunzio lascia a sua volta “Fiume che ho adorato e che adoro“, in automobile per Venezia. Sono passati 100 anni da quegli eventi. E, sembra davvero, proverbialmente, che sia passato un secolo. Oggi Fiume si presenta ai visitatori come “una città di mare italiana del dopo guerra, piuttosto sbrecciata“. Chissà se, e quale posto, verrà dedicato ai “cinquecento giorni“ nelle celebrazioni per la città, nominata Capitale Europea della cultura nel 2020. La storia dimentica, omette, e talvolta distorce. La vicenda di Fiume ne è un buon – o cattivo – esempio.

Sin qui il libro, che invito a leggere…Concludiamo con l’Arma dei Carabinieri sempre presenti nella storia d’Italia…Sappiamo che anche Loro devono avere, anche oggi in tempi di allontanamento dagli Ideali, del Comandante d’Annunzio, con orgoglio, fedele culto perché il Vate della Nuova Italia amava tanto l’Arma sì da presenziare, il 12 giugno del 1917, alla celebrazione funebre nel Duomo di Crauglio del Capitano dei Carabinieri Vittorio Bellipanni, pronunciando quelle memorabili parole che sono un inno perenne all’amor di Patria e alla religione del dovere del Carabiniere d’Italia di ogni tempo e luogo.
“Anche nel volto consunto di questo giovine capitano il sorriso è rimasto; e c’illumina tuttavia a traverso il feretro, più potente di questo sole crudo su questa strada nostra scalpitata dai fanti e solcata dai carri. Noi sentiamo che il suo silenzio è tuttavia operoso, come quando in silenzio egli faceva ogni giorno l’offerta della sua vita alla disciplina della guerra, che non era per lui se non il primo comandamento della Patria: condizione essenziale di salute e di vittoria. Quest’assidua dedizione di sé, nella semplicità più verace, nella leale vigilanza, egli c’insegna, affermandola come la regola severa dell’Arma in cui aveva l’onore di servire. È l’Arma della fedeltà immobile e dell’abnegazione silenziosa; l’Arma che nel folto della battaglia e di qua dalla battaglia, nella trincea e nella strada, nella città distrutta e nel camminamento sconvolto, nel rischio repentino e nel pericolo durevole, dà ogni giorno eguali prove di valore tanto più gloriosa quanto più avara è la gloria; l’Arma dei Carabinieri del Re incide oggi il nome del capitano Vittorio Bellipanni nelle tavole dei grandi esempii.”; e così, in memoria perpetua di quei giorni, scrisse nel maggio del 1936 (due anni prima di morire) al Generale Riccardo Moizo, Comandante Generale dell’Arma, già valoroso Combattente pilota di guerra: “Ora, con quel medesimo animo, Tu comandi l’intera Arma dei Carabinieri Reali: di quelli che io vidi combattere al mio fianco nella 45ª Divisione, di quelli ch’ebbi compagni irreprensibili com’ebbi compagno Vittorio Bellipanni che cadde sotto i miei occhi a Crauglio nel giugno del 1917”. E come, poi, non ricordare Ernesto Cabruna, asso dell’Aviazione nella grande guerra, il più decorato dei Carabinieri, che per i suoi meriti divenne ufficiale; così, di lui, d’Annunzio: “E il nostro eroe – quale altro nome dare a un tale uomo? – continua ad essere il solitario cacciatore, che non conta i suoi avversari, pronto a battersi contro intere squadriglie”.
Quale volontario dei Legionari di Fiume, Cabruna lasciò con coraggio l’Arma, sintetizzando in poche parole l’amarezza per la violazione dei Patti di Londra: “Il Tenente dei Carabinieri Ernesto Cabruna, non avendo più fiducia nella Monarchia e nelle istituzioni, rassegna le dimissioni da Ufficiale”. Gabriele d’Annunzio, per tanti alti meriti, volle ancora premiarlo per cui: “Oggi nell’ottavo anniversario della marcia di Ronchi, io conferisco la Medaglia d’Oro al mio Legionario Ernesto Cabruna, già mio glorioso compagno d’ala della III Armata. Egli fu il primo aviatore giunto a Fiume da me occupata. In qualità di mio ufficiale di collegamento rese grandi servigi alla Causa….. Dal Vittoriale, 12/09/1927, Gabriele d’Annunzio di Montenevoso”.

Il Capitano Ernesto Cabruna morì in silenzio, il 09.01.1960, a Rapallo, e dopo tre anni la sua salma venne traslata al Vittoriale degli Italiani perché riposasse, ultimo dei Legionari, accanto al suo Comandante, e questo nel centenario della Sua nascita, in una delle Arche che fanno corona alla tomba del Poeta Soldato….Che ho personalmente visto con commozione di Camerata dell’Arma Sempre Fedele…

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