Dietro tutte le trame

Di Giovanni Tamburino

Dietro tutte le trame

Di Giovanni Tamburino

Roma, 04 ottobre 2022 – ‘Dietro tutte le trame’, recente libro di Giovanni Tamburino (2022), Magistrato dal 1970 al 2015, componente negli anni ottanta del C.S.M. presieduto da Sandro Pertini, cofondatore del Movimento per la giustizia di cui fu socio Giovanni Falcone, Capo dell’Amministrazione penitenziaria dal 2012 al 2014, ha condotto l’istruttoria che nel 1974 ha evidenziato le complicità tra gruppi dell’estremismo neofascista, il servizio segreto del tempo e ambienti militari.
È componente del Consiglio direttivo dell’Archivio Flamigni. Per Donzelli è coautore de L’Italia delle stragi (a cura di Angelo Ventrone, 2019).

Iniziamo a leggere parti del libro.

-“”Introduzione.1. La guerra permanente. Un’ampia storiografia ha dimostrato che in Occidente particolarmente nelle marche di confine con il blocco sovietico quale l’Italia, si è svolta fino agli anni ’90 del secolo scorso una guerra sotterranea definita con espressioni quali “guerra non ortodossa”, “guerra a bassa intensità”, “guerra per procura”, “guerra (contro)rivoluzionaria” e analoghe formule. Una definizione meno ipocrita adopera l’espressione “guerra preventiva”, il cui significato risulta chiaro rifacendosi a uno dei testi canonici del radicalismo della destra internazionale, dove si legge: “L’ascesa della Cina al rango di superpotenza in Asia non può più essere arrestata che da una guerra preventiva contro Pechino”. L’affermazione non è affatto recente, come indurrebbe a pensare il richiamo alla guerra preventiva implicito nella recente aggressione della Russia di Putin contro l’Ucraina. È vecchia di oltre mezzo secolo, risalendo ai primissimi anni 60 del Novecento… Una guerra variamente definita, ma vera guerra, fu dunque combattuta in vari modi. Oggi sappiamo che uno di questi fu affidato a formazioni combattenti clandestine costituite da corpi paramilitari o corpi misti composti da militari e civili, tutelati al più alto livello di segretezza: non tutti illeciti, non sempre anti o extraistituzionali, ma sempre incentrati sulla finalità condivisa ed essenziale della lotta mondiale al Comunismo. L’obiettivo della distruzione del Comunismo non esiste più da decenni, stante il venir meno del suo oggetto. Coerentemente, la “guerra preventiva” o “rivoluzionaria” si è evoluta, senza smentire la propria radice teorica, trasformandosi in “guerra permanente”, giustificata da un terrorismo di regola manipolato e servente. Scritti, documenti, sentenze della Magistratura, confessioni, ammissioni e testimonianze dei diretti protagonisti, opere di autori sia militari sia civili mostrano che una teorizzazione conforme alle esigenze della guerra preventiva fu lungamente condivisa dagli Stati Maggiori italiani, fu imposta al nostro servizio segreto e venne perfino resa pubblica, seppur parzialmente, tra gli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, quando il rischio di slittamento a sinistra della politica italiana apparve grave alle strutture internazionali e interne.

– Trent’anni dopo. Nel condurre nel 1974 presso il Tribunale di Padova il processo istruttorio, divenuto noto come “Rosa dei Venti”, uno dei personaggi che incontrai fu il palermitano Giovanni Francesco, detto Gianfranco, Alliata di Montereale, che vantava titoli nobiltà principesca. Il nome non mi diceva nulla, ignoravo che fosse un’esponente di primissimo piano della massoneria mondiale, fondatore di aggregazioni massoniche e paramassoniche, tra cui una massoneria universale europea, nonché vertice di un’obbedienza – gli Alam – che aveva avuto peso nell’immediato dopoguerra e almeno fino agli anni 60. Ignoravo che quel nome fosse emerso più volte in sede giudiziaria a partire da quando era risuonato nell’aula della Corte d’Assise di Viterbo dove nel 1951 si processò alla banda di Salvatore Giuliano per la prima strage politica del dopoguerra, la carneficina di braccianti lavoratori siciliani che il 1° maggio 1947 insanguinò a Portella della Ginestra, località a pochi chilometri da Monreale. Nel corso dell’istruttoria del 1974 gli indizi a carico del principe di Montereale si consolidarono e nei primi giorni del novembre di quell’anno condussero le emissioni di un mandato di cattura. Alliata riparò a Malta dove aveva residenze e ottimi e appoggi, scrisse alla stampa presentandosi come un perseguitato politico e attese che, conformemente ai suoi desideri il processo fosse tolto a Padova e spedito altrove. L’auspicio si realizzò: in meno di due mesi la Cassazione decretò che il processo «Rosa dei Venti» fosse trasmesso a Roma. Alliata scrive nella sua autobiografia che ne gioì profondamente. Il Giudice padovano – dice – non gli risulta antipatico ma aveva l’intollerabile difetto di essere invaso da un’insana sete di giustizia. Da Roma Alliata si aspettava ben altro che giudici Robespierre. E lo trovò. Nonostante gli indizi a suo carico non fu nemmeno rinviato a giudizio. Il principe massone non subì il pubblico dibattimento che pure fu riservato ai suoi coimputati. Compresi gli illustri Generali Vito Miceli e Ugo Ricci. Nè tale singolare fortuna giudiziaria fu l’unica che toccò ad Alliata nel corso della sua vita. Il mattino del 30 dicembre 1974, entrato in ufficio, trovai sulla scrivania un lunghissimo telegramma. Veniva dalla Suprema Corte e riportava il dispositivo della sentenza che accoglieva la tesi dei Magistrati romani – Claudio Vitalone e Filippo Fiore, concorde Achille Gallucci, capo dell’Ufficio dei Giudici istruttori della Capitale – che avevano sollevato conflitto sostenendo necessità di trattare unitariamente il progetto padovano con quello per il “Golpe Borghese” della notte del 7/8 dicembre 1970. Non mi restava che sigillare le carte negli scatoloni e inviarle a Roma, cosa che feci subito senza nemmeno conservarne copia sembrandomi non corretto farlo. La vicenda processuale del principe palermitano e il nome Alliata uscirono da quel 30 dicembre dall’ambito dei miei interessi professionali e rimasero tra ricordi via via più remoti. Molti anni dopo un incontro fortunato li attualizzò. Conobbi Piera Amendola, grande esperta italiana sul tema massoneria, coltivato sin dalla collaborazione con la Presidente Tina Anselmi della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla P2, successivamente nella Commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante e ancora mediante preziose consulenze fornite a Magistrati di varie Procure della Repubblica, in particolare nel processo relativo ad alcuni dei più complicati e nascosti intrecci da politica corrotta e ricattata, massoneria deviata, finanza sporca e alti esponenti di mafia, camorra e ‘ndrangheta: fenomeni che, a causa di quel velenoso intreccio, hanno formato un vero e proprio sistema criminale, che dette nome all’ indagine svolta dalla Dda di Palermo tra il 1998 e il 2001.””

– da pag.132. “”Gli omicidi politici. Gli omicidi politici non rispondono mai a una logica di vendetta. Essi guardano avanti. Ciò fu vero per Occorsio (ucciso nel 1976) ed è vero per gli omicidi che hanno segnato l’Italia per decenni, inspiegabili se ci si ferma alle versioni degli autori identificati o si abbraccia la tesi della vendetta. Fu vero per Emilio Alessandrini, ucciso a Milano il mattino del 29 gennaio 1979 da una formazione di sinistra guidata da Marco Donat- Cattin che rivendicò il delitto con motivazioni inconsistenti: assurde in un’ottica «di sinistra», atteso che grazie alle eccellenti capacità investigative di Alessandrini, che lavorava con un altro straordinario inquirente, il G.I. Gerardo D’Ambrosio, in quel momento l’indagine sulla strage di Piazza Fontana stava inchiodando neofascisti e servizi segreti alle rispettive responsabilità. Fu vero per Giangiacomo Ciaccio Montalto, ucciso a Trapani il 25 gennaio 1983 perché aveva mappato con esattezza la struttura del potere economico mafioso a partire dalla Sicilia occidentale e si accingeva a colpirla proseguendo indagini già vittoriosamente svolte. Fu vero per la trappola mortale predisposta il 2 aprile 1985 contro il magistrato Carlo Palermo, salvatosi per un miracolo da un’autobomba fatta esplodere provocando una strage in località Pizzolungo presso Trapani. Carlo Palermo fu condannato a morte per le indagini che stava svolgendo sulle connessioni mafia-massoneria alle quali da allora sta dedicando ricerche ricche di grandi intuizioni. Fu vero quando Fioravanti e i complici dei Nar uccisero a Roma il 23 giugno 1980 il Giudice Mario Amato: non per vendicarsi di indagini già svolte, ma per impedire al Magistrato, che aveva compreso le complicità e le protezioni di cui godeva il vasto mondo dei neofascisti romani, di sviluppare le indagini in corso. Lo stesso deve dirsi per Antonio Saetta, ucciso la notte del 25 settembre 1988 per impedirgli di presiedere il processo d’Appello che si doveva celebrare a Palermo contro 450 appartenenti a Cosa Nostra e per Rosario Livatino, crivellato due anni dopo, il 21settembre 1990, sulla stessa statale 640 Agrigento-Caltanissetta che aveva percorso il suo collega amico Saetta. Uscendo dall’ambito dei magistrati, l’omicidio di Piersanti Mattarella, consumato a Palermo il 6 gennaio 1980, va ricondotto alla medesima esigenza “politica” che aveva portato due anni prima a uccidere Aldo Moro: occorreva fermare l’analoga politica che Mattarella intendeva sviluppare. È di grandissimo rilievo ricordare a tale proposito che Giovanni Falcone, quando svolse parte dell’indagine relativa a quell’omicidio vide, da parte sua, con estrema chiarezza, gli elementi di raccordo tra gli estremisti neofascisti, i golpisti di Borghese, la mafia e il suo referente politico. Falcone si rese conto dell’importanza di siffatte connessioni che conducevano lontano, tanto da segnalarla con espressioni per lui affatto inusuali. Sentito dalla Commissione Parlamentare Antimafia il 3 novembre 1988, disse che in relazione all’omicidio Mattarella occorreva capire se la partecipazione dei neofascisti fosse «alternativa» alla pista mafiosa oppure se «si compenetrava con quella mafiosa». Da ciò la «necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese anche da tempi assai lontani», parole che in bocca a Giovanni Falcone, persona dal linguaggio sempre pacato e talora volutamente riduttivo, possiedono un significato deflagrante. Occorreva ucciderlo per impedire che quella sua lucida prospettiva di riscrittura giudiziaria della storia italiana, anche di quella remota, potesse realizzarsi. Ed è in connessione con tale intuizione con una bellissima immagine Michele Leoni, il Presidente estensore della sentenza della Corte d’Assise di Bologna e nel processo a carico di Gilberto Cavallini, condannato all’ergastolo come coautore della strage di Bologna, avvicina Falcone all’Ulisse dantesco, sommerso da onde soverchianti quando giunge a scorgere ciò che deve rimanere celato. E ancora, la morte di Pierpaolo Pasolini il 2 novembre 1975 fu programmata al fine di spegnere, sprofondandola nel fango non solo materiale, una voce divenuta troppo autorevole che stava indicando in termini sempre più specifici i gestori della strategia eversiva. Quella uccisione fu l’omicidio politico, come è stato affermato in successive ricerche come, peraltro, già poteva leggersi in trasparenza nella sentenza di primo grado che afferma l’esistenza di complicità coperte a fianco dell’esecutore materiale. Fu utilizzato un ricattabile ladruncolo diciassettenne,Giuseppe Pelosi, che soltanto poco prima di morire rivelò gli aspetti occultati per decenni nella tragica vicenda.(invito a leggere articolo su www.attualita.it Direttore Salvatore Veltri, su libro scritto dalla grande giornalista d’ inchiesta Simona Zecchi -(https://www.attualita.it/notizie/tematiche-etico-sociali/perche-e-stato-ucciso-pier-paolo-pasolini-perche-uninchiesta-spezzata-48201/). Se tutto ciò è vero, come è vero in tutti gli omicidi politici frutto di deliberazione e pianificazione, nel 1976 la scelta tra Occorsio e l’ex G.I. di Padova era fatale posto che all’epoca, diversamente da Occorsio, non rappresentavo un pericolo per l’organizzazione per conto della quale Pierluigi Concutelli agì da killer. La stessa fonte che mi informò della discussione sulla scelta del bersaglio aggiunse che il «gruppo di fuoco» di Concutelli aveva scelto Occorsio anche per le maggiori difficoltà operative che avrebbe incontrato a Padova. Ma nel 1974 il rischio era attuale probabilmente non sbagliava chi disse che la Cassazione, spostando il processo a Roma, mi salvò la vita. Sapevo di rischiare. Ed è perfino banale dire che il sentimento della paura riguarda i Magistrati, me per primo, non diversamente da ogni essere umano. L’alternativa però era secca. L’alternativa stava in questi termini: o sottomettermi alla paura, o proseguire come avevo fatto dal giorno in cui ero entrato in Magistratura. Proseguire per conoscere la verità. Dinnanzi a questa alternativa per me non c’era storia. Non sono affatto un eroe, ma non mi piacerebbe vivere nella soggezione. Rinunciare alla ricerca mi sembra una delle peggiori soggezioni che possono opprimere un essere umano.””

Sin qui parti del libro.

Ora integrazioni e commenti. Esaminiamo “Il tentato golpe Borghese e la Loggia massonica P2 (7-8 dicembre 1970)” scritto da Pietro Calogero. Il grande Magistrato Pietro Calogero, Magistrato integerrimo, super partes (che ho avuto il piacere di conoscere quale Procuratore Capo di Padova e poi Procuratore Generale presso la Corte d Appello di Venezia durante il mio triennio di Comando della Regione CC Veneto, in Padova, 2006/09, con interessanti conversazioni …).“”Il 1970 è un anno importante nella storia dell’eversione nel nostro Paese, non solo perché conferma senza ambiguità le linee della strategia anticomunista predisposta oltre oceano con la redazione del Field Manual, ma anche perché vede irrompere sulla scena una forza eversiva nuova, la Loggia massonica P2 di Licio Gelli, che va ad affiancare, con il fine di potenziarla, l’organizzazione esistente all’interno del nostro Servizio segreto militare e controllata, attraverso la CIA, dal governo degli Stati Uniti.
Intanto, le elezioni politiche del 1968 segnano un allarmante ascesa dei partiti di sinistra (PCI e PSIUP), giunti a quasi il 32% dei voti. Le preoccupazioni per la tenuta del Governo centrista aumentarono. In quest’ottica, l’anno seguente, Gamberini conferì a Gelli il mandato di operare per l’unificazione delle varie comunità massoniche. Il mandato fu confermato da Lino Salvini, eletto Gran Maestro del Grande Oriente nel marzo 1970, il quale riservó al predecessore Gamberini, il delicato compito di continuare a tenere i rapporti con la CIA e, nel giugno successivo, delegó a Gelli i pieni poteri per il governo della Loggia P2, compreso quello di iniziazione di nuovi affiliati, da sempre prerogativa del Gran Maestro e dei Maestri venerabili. È pressoché certo che in questo periodo lo stesso Gelli ebbe a ricevere dal Pentagono il fondamentale manuale top secret sulle regole della guerra non ortodossa che il Generale Westmoreland aveva firmato il 18 marzo 1970. Veniva così a concentrarsi su di lui un potere straordinario, che oltrepassava l’ambito della massoneria e che si manifestó in tutta la sua portata entro la fine di quell’anno.

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 (notte dell’Immacolata) il principe Julio Valerio Borghese, ex comandante della 10ª Mas della Repubblica Sociale Italiana e leader dell’organizzazione neofascista Fronte Nazionale, guidò un’operazione che si proponeva di realizzare un colpo di stato e di instaurare nel nostro paese un regime di destra sostenuto dalle Forze Armate. L’operazione, chiamata in codice “Tora Tora“ (dal nome dei militari giapponesi che avevano dato l’attacco aereo della base navale americana a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941), prevedeva l’occupazione da parte dei congiurati di centri nevralgici come le sedi dei Ministeri dell’Interno e della Difesa, della Camera e del Senato, del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, della Questura di Roma, della RAI; l’eliminazione fisica del Capo della Polizia Angelo Vicari e la cattura del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. E l’arresto e la deportazione in due isole delle Eolie di avversari politici e di sindacalisti. Alle operazioni avrebbe fatto seguito l’intervento decisivo delle Forze Armate e l’annuncio, attraverso un proclama alla radio e alla televisione, letto da Borghese, del successo del colpo di stato e dell’avvento di un nuovo ordine sostenuto dai militari. In effetti, quella notte, diverse centinaia di congiurati, in gran parte armati e provenienti da varie Regioni d’Italia, si concentrarono in più punti prestabiliti della Capitale. Un gruppo, si radunó nella palestra dell’associazione paracadutisti in via Eleniana, agli ordini di Sandro Saccucci, già Tenente dei Paracadutisti e stretto collaboratore di Borghese, al cui armamento avrebbe dovuto provvedere il Generale dell’ Esercito Ugo Ricci. Un altro trovava sistemazione del cantiere nel quartiere Montesacro dell’imprenditore edile Remo Orlandini, che assieme ad altri fidati collaboratori di Borghese (Salvatore Drago, Giacomo Micalizio, Giovanni De Rosa, Adriano Monti, Enrico Bonvicini), formava il “comando operativo“, incaricato di coordinare gli interventi dei congiurati sulla base delle direttive che sarebbero state impartite dal quartier generale. Contemporaneamente, una colonna di circa 200 tra Ufficiali, Sottufficiali e Allievi del Corpo Forestale di Cittàducale (Rieti), al comando del Tenente Colonnello Luciano Berti, armati di tutto punto e muniti di manette (acquistate senza autorizzazione ministeriale appena pochi giorni prima), era in marcia verso la sede della RAI di via Teulada e un’altra, formata da una batteria di Artiglieria di Verona, al comando del Colonnello Amos Spiazzi, era in movimento verso una sede convenuta del Nord (Sesto San Giovanni). Il primo a entrare in azione, nel pomeriggio del 7 dicembre, fu un gruppo di militanti di Avanguardia Nazionale, comandati – secondo autorevoli fonti – da Stefano delle Chiaie. Penetrato nel palazzo del Viminale, il commando prese possesso di circa 180 mitra custoditi nell’armeria, che caricó su un camion per portarli al cantiere di Orlandini, sfruttando la complicità del Maggiore della PS Enzo Capanna, e del Dottor Salvatore Drago, Ufficiale medico del Ministero, che qualche giorno prima aveva reso possibile un sopralluogo e fornito ai congiurati una mappa con la descrizione precisa degli uffici. Ma poco dopo la mezzanotte il piano già avviato viene bloccato da un “contrordine“, la cui provenienza non è mai stata svelata, neppure da Borghese, e l’azione dei cospiratori fu rinviata. I mitra trafugati furono ricollocati al loro posto, ad eccezione di un mitra, sostituito da un altro con la matricola contraffatta. Nonostante l’allarmante quadro indiziario, l’operazione “Tora Tora“ fu liquidata dai Giudici romani come un complotto di pensionati (testualmente: un “conciliabolo di quattro o cinque sessantenni“) e tutti gli imputati, compresi quelli che avevano confessato il tentativo di golpe, furono assolti dal reato di cospirazione politica “perché il fatto non sussiste “… Non solo, ma l’intera trama eversiva era stata appoggiata dal Governo americano a garanzia della collocazione dell’Italia nell’alleanza atlantica e agevolata in concreto dal collegamento della CIA con i responsabili dell’operazione. Alla luce di questa riflessione, non può sussistere più mistero sulla provenienza e sul perché del “Contrordine” al compimento dell’operazione. Pur se fosse stato dato materialmente da Gelli, il contrordine fu deciso e partì da un alto comando militare americano, probabilmente dell’Esercito, con cui egli era in contatto e a cui non poteva che prestare obbedienza nella qualità di agente inquadrato nell’organico della CIA, tenuto come tutti gli altri agenti al rispetto dell’assoluta segretezza circa il coinvolgimento, nella Cover Operation del 7-8 dicembre, dell’Esercito e dei servizi di informazione statunitensi….”” Sin qui il Magistrato Pietro Calogero… le cui argomentazioni fanno tremare ancora oggi… Ricordiamo, ad integrazione, che quel tentato golpe fu al centro anni addietro di una approfondita inchiesta nella trasmissione di RaiTre, “La storia siamo noi”, condotta da Giovanni Minoli, con le dichiarazioni dell’ultra settantenne Adriano Monti, ex medico di Rieti, con posizione di rilievo nel piano golpista, il quale ha riferito del consenso degli USA al progetto, ma anche la condizione da loro pretesa circa la nomina a capo della giunta militare di Giulio Andreotti. Al riguardo, va rilevato che fu proprio Giulio Andreotti, nel 1974, quale Ministro della Difesa, secondo alcune fonti, a far sì che venissero cancellati dai rapporti redatti dal Sid per la Magistratura, i nominativi degli alti ufficiali piduisti coinvolti in quella notte, tra i quali anche l’Ammiraglio di Squadra Giovanni Torrisi, successivamente nominato Capo di Stato Maggiore della Marina (dal 1 agosto 1977 al 31 gennaio 1980) e, successivamente, Capo di Stato Maggiore della Difesa (sino al 29 settembre 1981), ma anche dello stesso Licio Gelli, che aveva il compito di organizzare il rapimento del Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat… Risulta, attingendo ancora da altre fonti, che furono coinvolti nel golpe anche i movimenti extra parlamentari “Ordine Nuovo” e “Avanguardia Nazionale”, come intensi furono anche i rapporti con la mafia siciliana e la ‘Ndrangheta calabrese, tanto che il giornalista Mauro De Mauro sarebbe stato ucciso proprio perchè scoprì quei collegamenti tra “Il Principe Nero” e Cosa Nostra. Il finanziamento, secondo alcune risultanze processuali, pervenne da alcuni importanti settori imprenditoriali liguri.

Quindi, concludendo, aggiungiamo noi, per i nostri 25 lettori, golpe da operetta? Solo il buon Dio lo sa; ma, la verità vera, probabilmente, è conosciuta anche da talune persone, ancora in vita… politici e non politici.

Torniamo, anche qui, alle verità indicibili.., gloria ingloriosa di questa nostra strana Repubblica.

Una cosa è certa: la verità anche in questo gravissimo evento (come per le stragi), non è stata raggiunta. La cosa ancor più grave è che, tuttora in circolazione, ci potrebbero essere “soggetti” che – sfuggiti dalle maglie dell’inchiesta, per fortuna o altri oscuri motivi – hanno attentato, allora, al nostro ordinamento costituzionale e democratico, con l’aggravante che, probabilmente, tali traditori del giuramento di fedeltà alla Repubblica, possano aver militato, con incarichi di responsabilità, anche nell’ambito dello stesso Stato che volevano abbattere…

La democrazia, lo sappiamo, e lo diciamo noi da Liberali, liberi Cittadini, liberi pensatori non massoni, è un bene incommensurabile che va difeso ad oltranza; con coraggio dobbiamo affermarlo, anche oggi!
Quanti Magistrati (ben 27!), sono morti uccisi dai terrorismi e dalle mafie; quanti rappresentanti delle Forze dell’Ordine (centinaia), ancora, sono caduti sul Fronte del Dovere per onorare quel principio di legalità che avevano scelto come propria linea guida attraverso il giuramento?
Per Loro, ma soprattutto per i cittadini (moltissimi tra essi deceduti, vittime inconsapevoli, a seguito di atti criminali di varia natura, quali stragi e attentati), bisogna fare di tutto perchè si giunga alla verità, ma ad una verità vera, giammai ad una verità farsa, come nel caso del golpe della “Notte della Madonna”, secondo la “vulgata” ufficiale capeggiata da cinque o sei pensionati ultrasessantenni e velleitari… come anche da Ufficiali “trombati”… con aspirazioni di ulteriore carriera…, quasi una Commedia del grande, grandissimo Eduardo De Filippo!!

Concludo, affermando, tenendo conto di quanto accaduto, che la Democrazia va difesa, soprattutto oggi, periodo oltremodo nebuloso…!!

Ho finito.

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