La morte di Jules Bianchi

Roma, 19 luglio – La giornata di ieri era piena di necrologi di Jules Bianchi.

Il pilota della F1, dopo l’incidente a Suzuka, nel Gran Premio del Giappone, era entrato nel coma e non ne era più uscito.

Cosa dire? Jules Bianchi non è il primo e non sarà l’ultimo a morire in questo modo e fa male sentire di una vita stroncata a venticinque anni per una ragione che…non esiste.

I media dilungano nei necrologi e nelle “sentite condoglianze” che, espressi in questo modo, diventano retorica e niente altro ed, escludendo doverosamente la famiglia, l’unica colpita autenticamente dal dolore, chiediamoci il perché è avvenuto questo.

Doveva correre nei bolidi della Formula 1 a trecento Km/h; a 212 Km/h ha incontrato l’incidente e a 212 Km/h non si può avere materialmente la possibilità di evitarlo. Se l’essere umano avesse questa possibilità… non sarebbe più essere umano. Se non avesse corso con quei bolidi, che non si è ancora capito che cosa vogliano raggiungere, sarebbe ancora vivo.

Probabilmente il suo nome non sarebbe apparso sui giornali e non sarebbe stato fotografato sul podio con la bottiglia di champagne nelle mani, ma sarebbe ancora vivo. Che cosa lo ha spinto a fare il pilota d’alta velocità? “La passione!”, direbbe la famiglia e direbbero pure i fans ma lasciamo stare i fans che sono degli intossicati dai mass media e parliamo della famiglia.

Non è “accettabile” accettare una “passione” di questo tipo supinamente perché appassionato e famiglia devono mettere nel bilancio preventivo, quando si corre a trecento Km/h, l’incidente, per la quale ragione, ci deve essere una “molla” superiore che spinga corridore e famiglia ad accettare un rischio di questo livello… e non è nemmeno la ”gloria”, conquistabile in mille altri modi, ma forse è il denaro… la molla “che move il sole e l’altre stelle”.

Di sicuro, una certa durezza di valutazione, ci spinge a dire che “se l’è cercata!”… ”l’ha voluta lui” e, questo ci porta a diminuire notevolmente la pietà che, comunque, bisogna sentire per questo sventurato.

Ma quale che sia stata la motivazione,  sarebbe potuta valere il “rischio della vita”?

Molti anni fa, un giovane plurilaureato, dell’alta borghesia lombarda, sentì la vocazione religiosa ed espresse il desiderio di entrare in convento. I genitori, credenti, che ben sapevano, però, che cosa stava diventando la chiesa, e che volevano il figliolo buon laico ma non cattivo prete, posero al loro rampollo, una condizione; lui avrebbe avuto la libertà di prendere i voti solo dopo che loro sarebbero morti; e il sacerdozio è molto diverso dalle corse della Formula 1.

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