Teatro Quirino – “La scuola delle mogli” in chiave catanese – Corna di casa nostra

Roma, 9 maggio – Quando sul finire del 1662, Jean Baptiste Poquelin, detto Molière, che aveva varcato la soglia dei quarant’anni,  capo comico di successo, decise di sposare la ventenne Armande Béjart, sorellina minore della sua amante in carica, Madeleine, o più probabilmente sua figlia, non avrebbe pensato certo che l’evento gli avrebbe suggerito una commedia che dopo avere divertito la Francia dell’epoca, con Louis XIV in testa, avrebbe trovato accoglienze nei secoli a venire, modulandosi sui tempi e sui luoghi e fino ad oggi con  questa bella edizione in scena al Teatro  Quirino, rivisitata e trasferita in ambiente catanese, anche per caricarsi nel viaggio da Parigi di tutte quelle gag linguistiche, dei fraintendimenti, del colore dialettale. E certo non si aspettava di doversi confrontare il povero Molière con la propria biografia per attingere i personaggi della pièce che hanno la forza della verità. Ma sono scotti che si pagano quando si cerca di forzare le situazioni oltre i limiti della natura.

Il fatto è che questo signore Arnolfo, protagonista de La Scuola delle Mogli,  lingua sforbiciante e compiacimenti per le disgrazie che ornavano le fronti dei suoi conoscenti, ormai in età più che matura (per l’epoca) si compiace di pensare che la colpa di tante ramificazioni su teste francesi sia da attribuire alla eccessiva libertà e alla  cultura di cui godono le giovani signore che, conquistata la rispettabilità maritale, non trascurano di procurarsi piacere fuori dalle lenzuola di casa. Grande osservatore dei costumi, Arnolfo, svelato l’inghippo, cerca subito il rimedio: procurarsi una bimba in buona salute e affidarla alle suore di un monastero con la raccomandazione di tenerla ben lontana da qualsivoglia suggestione culturale e persino di una sia pur minima istruzione primaria, un’asinella, ecco, non di più.

La sorte della piccola Agnese, bel faccino roseo di una bimba di soli sette anni, con la bocca odorosa di latte, è così decisa: viene presa in consegna dalle mani della balia dal possidente Arnolfo, che penserà a modellarla con i metodi individuati per farne poi una casta sposa, dopo una serena permanenza presso le buone suorine che le avrebbero insegnato l’arte del rammendo, e piccoli lavori domestici, ed ogni altra cosa indispensabile  perché cresca entro i limiti ferrei d’una educazione con paraocchi incorporato che le faccia vedere la striscia di cielo dove si è assiso il futuro marito/padrone, e la tenga lontana da ogni tentazione.  L’ignara fanciullina ha già trovato dunque il pretendente che non aspetta altro che di vederle raggiungere un’età conveniente per sposarla. E perché tutto avvenga al riparo da lingue velenose, ecco che Arnolfo cambia nome, diventa il signor del Ciocco.

Il tempo scorre, la giovinetta Agnese è ora alloggiata presso una casetta assai prossima alla casa-bottega del suo signore e padrone, sotto lo sguardo attento e scrupoloso di due famigli-guardiani che hanno la funzione di preservarne la solitudine e l’isolamento. Ma si può impedire all’aria di diffondersi, alla luce di rischiarare, alla gioventù di attrarsi inesorabilmente? Le risorse del caso sono infinite e lo spicchio di cielo d’improvviso si apre facendo penetrare a gran forza le conseguenze dell’amore. C’è un giovanotto dal baffetto vispo che passando con il suo bel costume rosso da studente di medicina ha intravisto al balcone la bella Agnese e le ha fatto un inchino. Al quale lei risponde con una riverenza e la cosa si perpetua. E tanto basta perché esploda la natura in tutto il suo compresso vigore. Dopo una serie di vicissitudini, e di colpi di scena abilmente costruiti, l’happy end è assicurato.

Lo spettacolo nasce sotto l’egida di Guglielmo Ferro, regista di gran talento, che ha tagliato e cucito di fino il personaggio sulla vis comica di Enrico Guarneri, sfruttandone compiutamente la faccia e gli occhi mobilissimi,  e quella parlata catanese che è siciliano classico esercitato sul palcoscenico da nomi mitici come Angelo  Musco, come Turi Ferro e tanti altri. Che è anche avanspettacolo e gioco, secondo gli stilemi classici della farsa che fustiga, ma consola il pubblico certo che mai sarà coinvolto da vicissitudini simili a quelle del personaggio che lo diverte sulla scena. Ed è proprio il passaggio da una lingua all’altra, anzi da una lingua al vernacolo, che diventa riscrittura e non semplice traduzione perché i modi di dire adoperati, persino certi epiteti che diventano parole d’ordine e che sono veri e propri insulti, a ridare il colore e il sapore di quest’opera nata oltre trecentocinquanta anni, perpetuandone la struttura drammaturgica e restituendole il sapore voluto da Poquelin. Non manca peraltro un hommage all’opera dei Pupi, quando Arnolfo calca in testa un luccicante elmo da combattimento con il suo pennacchio di piume colorate come uno dei famosi paladini di Francia. In una scena essenziale, curata assieme ai costumi da  Riccardo Cappello, dove la fa da padrone una sorta di ponte levatoio che permette l’accesso alla casa di Arnolfo/del Ciocco ( ma c’è una robusta edera sul retro che funzione egregiamente per gambe leste e fisici giovani) si alternano con carature e modulazioni comiche l’esordiente Nadia De Luca, nelle vesti di Agnese, finta naif, lei che crede che i bimbi nascano dalle orecchie, ma in realtà è astuta come la più navigata delle donne. Dotati di tempi comici perfetti e ottime spalle anche  Vincenzo Volo, il fido Alano e Amalia Contarini, Giorgina. Presenti in scena armoniosamente l’elegante Rosario Marco Amato,  innamorato della bella Agnese, Mario Sapienza,   Pietro Barbaro, Ciccio Abela e Gianni Fontanarosa.

  

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