Accademia di Santa Cecilia – Antonio Pappano dirige Luigi Piovano, I° violoncello dell’Orchestra ceciliana

La Douce France di Bizet, Saint-Saëns e Ravel

Due artisti animati dell’arma infallibile dell’empatia verso il pubblico e verso la musica stessa che gli regalano per questo vibrante spettacolo settembrino dell’Accademia di Santa Cecilia: Antonio Pappano e Luigi Piovano.

Pappano e Piovano, abituati a condividere il palco della Sala Grande di Santa Cecilia, nei rispettivi ruoli, di Direttore amatissimo l’uno, di I° Violoncello l’altro (Piovano ricopre anche il ruolo di Primo violoncello ospite delle Filarmoniche di Tokyo e Seoul), mostrano la rara attitudine a diventare essi stessi messaggio e linguaggio musicale, attraverso ogni espressine del volto, del sorriso, delle vibrazioni del corpo.

Spesso Sir Antonio Pappano si ritrova ad accennare passi di danza.

E Luigi Piovano “dirige” i colleghi musicisti alzando lieve un sopracciglio o facendo fiorire un sorriso come di complicità all’insegna della gioia per regalare ai presenti anche le proprie emozioni più segrete.

Per il pubblico, così, lo spettacolo è almeno doppio.

Sul palcoscenico, protagonista in questa serata umida e piovosa è la “douce France” e il milieu musicale fra ‘800 e ‘900 con Bizet e Ravel chiamati a far da cornice al brillante Concerto n.1 per violoncello e Orchestra op. 33 di Camille Saint-Saëns.

Ed ecco immediato uno sgargiante quadro sonoro, carico di tutti i colori più smaglianti, un tema vitalistico che traspare per tutto il concerto e che si addensa nel Finale in una coda altisonante.

Ma prima è stato temperato da numerosi e leggiadri motivi di danza e punteggiature liriche quando il dialogo caldo e avvincente fra strumento solista e orchestra si scioglie in un tema di valzer romantico.

Ed ha sondato tutti i possibili moti dell’anima parlando un linguaggio complesso e variegato, soave e lirico ma anche agitato e virtuosistico, come è caratteristica dello stile di Saint-Saëns che intendeva “riassumere” la musica del passato e nel contempo offrire come un’anticipazione, una proiezione delle formule compositive del futuro.

Saint-Saëns fu un compositore eclettico che aveva imparato ad amare la forma classica, diventando abilissimo nella tecnica del contrappunto, e ad usare quanto la musica francese del tempo gli poneva su un piatto d’argento: il bel colore orchestrale, l’originalità della ritmica, la linea melodica amabile e accattivante.

Pronto alla contaminazione dei generi, egli fu ammaliato dal Belcanto, dal Grand-opéra di un Meyerbeer, di Berlioz, come dalla musica italiana e dalle arie e dai brani d’insieme più antichi, e spesso un’eco la si ritrova in molte sue composizioni.

Il concerto non ha cesure fra i tempi, si svolge in un unicum, un modo di procedere informale rispetto ai modelli offerti nel passato.

La scansione in tre tempi avviene attraverso piccole notazioni del compositore, che Luigi Piovano fa emergere seguendo rigorosamente le indicazioni dello spartito, come, ad es., quel “un peu moins vite” per esaltare l’ispirata melodia con cesellature liriche.

Il concerto è il regno dell’armoniosa intesa fra solista e direttore, perfetta in questo caso, e risolta con una passione dichiarata e un’aura di gioia.

La gioia di far musica insieme divenuta contagiosa per il pubblico che ha ringraziato con applausi nutriti, felice di gustare poi il virtuosistico bis,“Il volo del calabrone” di Rimsky-Korsakov.

Il programma della serata si era avviato sulle note raffinate della suite di danze barocche “Le tombeau de Couperin” di Maurice Ravel, dove il termine “tombeau” assume il significato di ‘omaggio a’.

Il titolo potrebbe far supporre che sia dedicato al celebre clavicembalista della Corte del Re Sole, François Couperin, in realtà l’ omaggio è alla civiltà strumentale del barocco francese, attraverso danze del XVIII secolo.

La composizione per pianoforte nella sua fase iniziale risale al 1914, poi fu interrotta da gravi congiunture: l’esplosione della I° Guerra Mondiale, per la quale Ravel si arruolò volontario, la devastante morte della madre e la perdita al fronte degli amici più cari.

Fu per Ravel un periodo di silenzio compositivo vissuto nella riservatezza abituale che si spezzò proprio con la conclusione della Suite nel 1917, trascritta tre anni dopo per orchestra ridimensionando le danze da sei a quattro.

Scomparse la Fugue e la Toccata, rimasero nella versione orchestrale la Forlane (danza originaria della provincia del Friuli), il provenzale Rigaudon, cui Ravel riservò di chiudere la Suite, mentre al Prélude e alla raffinata dolcezza dell’oboe il compito di iniziare, e il Menuet, la danza amata per le sue eleganti figurazioni geometriche dalla Corte di Louis XIV.

Sono pagine che celebrano la Bellezza, esaltata da ricchi colori sfumati e teneri con una ritmica determinante come nel Minuetto, dove momenti più ironici si innervano in modalità popolaresche (Forlane).

A conclusione del programma, la “Sinfonia in Do” composta dal diciassettenne allievo di Conservatorio George Bizet nel 1855 e rimasta sconosciuta fino al 1933.

Quell’anno, la “Sinfonia in Do” quando fu portata a conoscenza del celebre direttore d’orchestra Felix Weingartner, che ne apprezzò immediatamente la raffinatezza della forma e dell’orchestrazione e la propose con vivo successo in prima esecuzione mondiale a Basilea nel 1935.

Bizet, che venti anni dopo avrebbe dato al mondo la Carmen, fa già apprezzare in questo capolavoro giovanile il particolare gusto per i colori vivaci e la felicità nel costruire splendide melodie.

Certamente, il giovane compositore mostra appieno di avere ben assimilato la lezione dei classici, Haydn, Mozart e Beethoven e soprattutto il caposcuola dei romantici Mendelsshon.

Tuttavia, l’impianto della Sinfonia è agile e pieno di idee musicali che travalicano l’esperienza dell’allievo e denotano una concezione compositiva frutto di un talento affinato dalla familiarità con tanta cultura musicale.

Il meraviglioso II° movimento della Sinfonia, un Adagio in la minore, crea un’atmosfera di soffuso incanto, come di sospensione, con melodie indimenticabili dell’oboe sostenute da un pizzicato di viole che ricordano pagine de “Les Pécheurs de perles” e “L’Arlésienne”.

L’Adagio è certamente il movimento che esalta l’espressività e l’eleganza di Bizet, che avvia a conclusione la sua ‘Sinfonia in do’ con vivacità esuberante, con i temi ripetuti in diverse tonalità.

 

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