Droghe: che fare?

In diversi Paesi occidentali, l’amministrazione controllata della droga è un esperimento in corso da tempo.
La sperimentazione intrapresa sul piano internazionale, che comunemente viene definita con il termine “politiche di riduzione del danno”, è consistita essenzialmente nella parziale sostituzione dell’offerta del mercato illegale con forme di vendita o di somministrazione legale delle droghe proibite.

Svariati sono stati gli strumenti giuridici utilizzati a tal fine. Si va dal ricorso alla cosiddetta “clausola della non obbligatorietà dell’azione penale”, come avviene in Olanda, all’adozione di protocolli validati internazionalmente di sperimentazione scientifica, come avviene in Svizzera, per finire con l’inserimento nella Farmacopea ufficiale di sostanze incluse negli elenchi delle Convenzioni Internazionali in materia di stupefacenti, come avviene in Gran Bretagna.
Alcuni Stati hanno poi istituito delle di aree di relativa e controllata extraterritorialità (intese soprattutto come “aree di servizio” per consumatori di droghe), peraltro di diversissima natura e finalità: dai coffee-shop olandesi alle “Fixerstube” tedesche, ovvero centri a bassa soglia in cui alla possibilità per i tossicodipendenti da oppiacei di consumare “liberamente” droga senza rischiare l’intervento delle forze di polizia, si affianca l’offerta di servizi sociali e sanitari da parte delle istituzioni pubbliche.
Quello che fa riflettere è che in Paesi come l’Olanda, nei quali, in virtù delle politiche più liberali ci si aspetterebbe un consumo più alto di droghe, le percentuali di consumo di droghe sono scese drasticamente.
I risultati di queste politiche hanno dunque concorso, complessivamente, a ripristinare migliori condizioni di sicurezza nelle città ed un migliore livello di assistenza dei cittadini tossicodipendenti, “orientando” i consumi di droghe e più in generale gli stili di vita dei consumatori verso forme socialmente più sostenibili o, comunque, meno dirompenti.
Quello che si osserva in Italia, invece, è assai diverso. Lo evidenzia un’indagine condotta dall’istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa in occasione della Relazione annuale del Parlamento sulle droghe relativa al 2007, e resa pubblica nel mese di luglio scorso.
Su 320.000 in totale, stando ai dati del CNR sarebbero 130.000 (circa il 41%) i tossicodipendenti che non hanno beneficiato di alcun tipo di assistenza nel nostro Paese nell’ultimo anno, né presso SERT (Servizi pubblici per le tossicodipendenze), né presso comunità di recupero.
Per quanto riguarda invece i consumatori che hanno ricevuto un trattamento, sono stati 171.771 gli utenti dei SERT, dei quali poco meno del 10% è stato inviato in una comunità terapeutica. La stessa fonte riporta che il numero totale degli ospiti delle comunità di riabilitazione è stato di 18.357, considerando anche chi non è passato dal SERT.
Si tratta di dati certamente allarmanti, specie se si considera l’incessante sforzo del legislatore nazionale di arginare il fenomeno delle tossicodipendenze attraverso la continua ricerca, nel corso degli anni, di modalità di securizzazione tali da garantire livelli sempre minori di rischio.
Se guardiamo all’evoluzione culturale del nostro Paese verso il fenomeno droga è evidente come si sia gradualmente passati da una disapprovazione di tipo informale del comportamento e dei suoi effetti, ad una vera e propria punizione normata.
Nella prima legge che disciplinava l’uso degli stupefacenti, datata 1923, il consumatore veniva curiosamente definito un “vizioso”, senza essere punito penalmente. In questo periodo, infatti, la diffusione di tali sostanze non risultava essere particolarmente elevata, tant’è che non era assolutamente previsto un intervento pubblico di prevenzione del consumo.
Col tempo la droga è diventata una realtà sempre più dilagante e l’approccio normativo si è fatto proporzionalmente più sanzionatorio. L’ultima legge, in ordine temporale, in materia è la legge n. 49 del 21 febbraio 2006, che introduce un regime particolarmente rigido, teso a rendere più grave la rappresentazione che l’interessato possa farsi dell’assunzione dello stupefacente, pur prevedendo un sostegno a favore del tossicodipendente, con un’assistenza e un controllo ravvicinato.
Tuttavia, la sostanziale insufficienza dei sistemi e delle strutture attualmente preposte al recupero dei tossicodipendenti in Italia – come dimostra il cospicuo numero degli esclusi dai servizi pubblici, messo in luce dall’indagine del CNR di Pisa – suggeriscono l’opportunità che la legislazione nazionale si apra alla possibilità di sperimentare processi di “normalizzazione” della somministrazione di stupefacenti.
Un approccio, questo, certamente assai coraggioso per il nostro Paese, ma che si fa scudo di tutte le sperimentazioni di comprovata validità attuate sul piano internazionale, e della relativa urgenza di interventi mirati, dimostrata dalle ricorrenti emergenze.
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