NO AI GIUDICI POLITICI, SI AI GIUDICI IMPARZIALI

CONTROCORRENTE

a cura di Maria Perrone Policicchio
 

Da vari decenni, nel nostro Paese, i dibattiti più accesi si concentrano sulle riforme attuate o da realizzare.
Fra quelle attuate ha fatto parlare molto di sé la riforma scolastica per essere stata più volte rivisitata
e perché oggetto di valutazioni negative confermate, alla luce dei suoi effetti, anche dalle indagini
demoscopiche che ci hanno relegato, in fatto di livello culturale, agli ultimi posti delle graduatorie
europee e internazionali.
Vero è che, da quando il ’68 ha buttato al macero il cosiddetto nozionismo sono stati trascurati i contenuti e l’impegno didattico si è concentrato sui metodi.
Anche la riforma elettorale, più volte ritoccata, non ha avuto migliore fortuna considerata, fra
l’altro, l’origine non certo elettiva dei nostri deputati. In compenso non è stato ancora ridotto il numero dei parlamentari, nè quello degli enti inutili così come non sono state ridotte le munifiche elargizioni a tutte quelle istituzioni politiche che gravano sul bilancio statale in maniera esorbitante e anomala rispetto a gli altri Paesi europei . A suscitare una serie di severe, reiterate
condanne da parte dell’Europa – per i tempi intollerabilmente lunghi dell’ iter processuale – è la giustizia italiana.
Di fatto, sia in sede penale che civile, “il nostro Paese è diventato la favola del mondo per non essere ancora riuscito a mettersi al passo con i Paesi civili”. Negli ultimi quarant’anni al gravame delle lungaggini processuali si sono aggiunte quelle devianze giudiziarie – più volte segnalate dalle colonne de “L’Attualità”, che hanno reso sempre più aleatoria la speranza di fermare una paralisi giudiziaria dagli effetti devastanti.
Di fatto, non è solo la constatazione dei danni materiali di un torto legalizzato che disorienta l’utente della giustizia, ma anche e soprattutto l’amara consapevolezza dell’incertezza del diritto. Oggi, non solo la gente qualunque ma anche gli opinionisti, i politici, i giuristi definiscono
disastroso lo stato in cui versa la giustizia; non basta, tuttavia, radiografare la situazione quale si presenta attualmente. Se si vuole intervenire efficacemente bisogna risalire alle cause prime del degrado giudiziario ripercorrendone l’iter attraverso i momenti più caratterizzanti dell’ultimo quarantennio.
Già negli anni ’60 si è resa necessaria la cosiddetta “supplenza giudiziaria” ma, allora, nessuno ha pensato ad un possibile sbilanciamento dei poteri dello Stato che potesse incrinare la regola d’oro
della divisione dei poteri. Successivamente, con la contestazione studentesca
sono saliti alla ribalta della cronaca i pretori d’assalto – il che ha indotto a parlare con troppa disinvoltura di toghe rosse, di soccorso rosso e di politicizzazione di alcuni magistrati.
Sta di fatto che le più alte cariche istituzionali sono state occupate dai magistrati. E da magistrati, divisi in correnti, è formato, in maniera preminente, il C.S.M. organo di autocontrollo e di autotutela affiancato da un potente sindacato: l’ A. N. M.
Ed è stato proprio questo organo, diviso politicamente in correnti ma unito corporativamente, ad organizzare scioperi, convegni, mobilitazioni di magistrati e a preparare i cosiddetti “pacchetti” contenenti le rivendicazioni magistratesche.
Il che, c’è da dire, ha consentito al magistrato di raggiungere obiettivi insperati, per un dipendente statale, come per esempio l’automatismo della carriera grazie al quale tutti i magistrati giungono
rapidamente in Cassazione, l’inamovibilità, l’equiparazione degli stipendi  a quelli dei parlamentari, l’automatismo degli aumenti economici. All’inverso, non si è provveduto a raddoppiare il numero dei magistrati ben più necessario.
Non solo: il referendum dell’ 87 teso ad ottenere la responsabilizzazione del magistrato, richiesta dalla grande maggioranza dei cittadini, è stato accortamente neutralizzato e, con esso, la possibilità
per il Popolo Sovrano di fare sentire la propria voce.
Ma, ormai, la volontà popolare è soffocata da quella dei politici che anche in occasione del
referendum sul finanziamento ai partiti hanno disatteso la voce della stragrande maggioranza dei cittadini contraria ad una elargizione legalizzata del pubblico denaro in aggiunta agli sperperi, più o meno occulti, di cui i contribuenti sono chiamati a farsi carico.
Il che può spiegare la risonanza, nel ’92, dell’operazione “mani-pulite” accompagnata dalla speranza di una rigenerazione istituzionale. Una speranza, tuttavia, andata delusa anche a causa dell’immediata conseguenza del discredito della classe politica a seguito dell’ inchieste giudiziarie. La crisi della giustizia, si affronterà perchè qualsiasi tentativo di riforma è stato bollato come un attentato all’autonomia del magistrato. Eppure le indagini demoscopiche hanno rivelato, una cruda realtà: la giustizia italiana è agli ultimi posti della graduatoria superata da molti Paesi africani e asiatici. E sono sempre le statistiche, a farci sapere che gli arretrati giudiziari sono cinque, sei volte superiori a quelli di molti Paesi europei. Si è cercato di rimediare con una proposta di legge “accorcia-processi”. La proposta non trova accoglienza fra i partiti dell’opposizione né fra i magistrati perché, considerata l’impossibilità di concludere entro due anni ogni grado
di giudizio, aumenterebbe il numero dei processi estinti per prescrizione con grave danno per le parti lese. Il che è vero se i tempi fissati non vengono rispettati ma, c’è da chiedersi, oggi con i procedimenti attuali, vengono rispettati i tempi fissati?
L’interrogativo implica due risposte. Dalla prima risulta che non viene rispettato, nel penale, uno degli aspetti del processo accusatorio : il principio della continuità del dibattimento che dovrebbe garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Dalla seconda risposta risulta una verità ancora più allucinante. I dati statistici, infatti, rivelano che le prescrizioni, nell’arco di un anno, raggiungono la media di 200.000 unità. Il che significa che 200.000 vittime sono destinate ad affrontare una seconda amara esperienza: l’estinzione del processo, equivalente ad una assoluzione in favore del colpevole e, quindi, un secondo affronto questa volta da parte della
giustizia legalizzata.  Non c’è da meravigliarsi, pertanto, se gli entusiasmi suscitati dalla stagione di “mani-pulite” si siano andati affievolendo fino a trasformarsi, nella maggior parte dei cittadini, in un senso di sfiducia che non ha risparmiato persino alcuni ambienti della Sinistra da cui sono
partite bordate contro la “casta” dei magistrati. E non c’è da meravigliarsi se “la maggioranza silenziosa” ha votato il centro-destra attribuendo credito ad un programma che oltre a prevedere misure preventive per la sicurezza in Patria, poneva a fondamento dell’azione di Governo una
promessa: quella di rigenerare la giustizia. Si tratta di una promessa ancora non mantenuta. Di fatto, quelle leggi definite dagli oppositori “ad personam” in una riforma tesa al bene comune si sarebbero rivelate necessarie perché un governo deve perseguire, nell’interesse generale, fino alla fine della legislatura il mandato attribuito dalla maggioranza degli elettori senza dover fare i conti con un giudice inquirente che non può sfuggire al sospetto, pur sè infondato, di agire per interessi di parte,
specie se l’avviso di reato scoppia come “una bomba ad orologeria” in concomitanza con scadenze di rilievo. Di certo, il potere giudiziario ha assunto maggiore valenza nella misura in cui hanno ceduto e perduto credito gli altri poteri dello Stato. C’è da chiedersi se questi ultimi decenni
saranno ricordati , in attinenza alla teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici, come “l’età dei giudici” di biblica memoria.
E, in effetti i magistrati, abbandonata la toga, sono diventati presidenti della repubblica, hanno
fondato partiti; per non parlare di posizioni strategiche di grande rilievo.
Ed è all’insegna dell’autonomia che è stato motivato tutto ciò che è stato fatto o non è stato fatto nella sfera della giustizia. Si è provveduto, infatti, a creare un muro invalicabile dai condizionamenti esterni ma non si è provveduto ad eliminare i condizionamenti interni. Ad onor del vero, a soffrire di questa situazione insieme alla gente comune sono stati quei magistrati che fanno il proprio dovere, che non sono attratti dalla politica, che hanno scelto di fare i magistrati perché spinti da vocazione, che avrebbero scelto di fare i giudici anche se la carriera non fosse stata progressivamente automatica e gli stipendi fossero rimasti allineati, come negli anni ‘60, con quelli dei professori. Magistrati, in altri termini, consapevoli che i condizionamenti politici e corporativi costituiscono un impedimento alla realizzazione del bene comune, che fanno della giustizia il proprio credo, che avvertono il disagio di trovarsi nella più tragica solitudine e sentono l’esigenza di restituire al cittadino, come osserva Salvatore Valitutti nella prefazione del libro “Il nome della legge” “ad onta delle molte ferite che sono state inferte in questi anni alla maestà della legge, fede nella giustizia”. Maria Perrone Policicchio
 
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