Aldo Moro – “Morte di un Presidente”

Roma, 26 giugno – Il libro di Paolo Cucchiarelli  “Morte di un Presidente”  (Ponte alle Grazie, 2016) in libreria dal 9 giugno, ha il supporto di un perito balistico Gianluca Bordin e un Medico legale Alberto Bellocco. 

Si riaccendono così i riflettori sul “mistero” della Repubblica attraverso l’incrocio di dati documentali e storici con l’ausilio di documentazioni fotografiche inedite. La ricostruzione punta sui seguenti aspetti:  le innumerevoli tracce di sabbia e tessuto sugli indumenti del Presidente che dimostrano l’esistenza di varie “prigioni” contrariamente alla storiografia ufficiale e alle bugie delle BR; dovrebbero essere state ben cinque!;  la modalità e il vero luogo ove fu ucciso Moro –  poi condotto in Via Caetani –  e le anomalie del pollice sinistro trafitto da un proiettile, non risultante in alcuna  perizia, che demoliscono  la dinamica sin qui riferita sul momento dell’uccisione; la coperta non bucata con la quale fu celato Moro, secondo le BR, prima di ucciderlo; la posizione in cui Moro si trovava quando il suo corpo fu rinvenuto nel bagagliaio della Renault 4 opposta a quella da cui arrivarono i colpi.

E ancora tanti altri i nuovi elementi presenti, non solo di tipo criminale-giudiziario.

Ma intanto i lettori si chiederanno: perché dopo tanti anni (38) e ben 5 processi e diverse  Commissioni Parlamentari d’inchiesta compresa l’ultima in piena attività, sussistono ancora vuoti nella ricostruzione dei fatti? Con il nostro articolo: “Ancora un processo sul caso Moro” del 10 Dicembre 2014 scrivemmo che l’allora Procuratore Generale di Roma, Luigi Ciampoli,  formalmente disse che “sono emersi gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” dello statista democristiano. L’ipotesi di lavoro era che l’americano Steve Pieczenik abbia condizionato le Brigate rosse perché arrivassero alla determinazione   dell’ uccisione del prigioniero e non alla sua liberazione. Si riapriva, quindi, la pista internazionale, e a tal fine il Procuratore Generale aggiungeva che “Bisogna prendere atto che in via Fani.. non c’erano solo le Br. Oggi sappiamo che su quel palcoscenico c’erano, oltre alle Br, agenti dei servizi segreti stranieri, interessati a destabilizzare l’Italia”. Sono state parole pesanti, soprattutto perché provenivano dal più autorevole Magistrato della pubblica accusa… Ora, il nuovo processo, se avrà davvero luogo, chiarirà tutti questi spaventosi intrecci? L’autore del libro, Paolo Cuchiarelli, insiste molto sul tema del “regista” dell’intera operazione, e la prima dicotomia  rintracciabile tra le due figure che sembrano rincorrersi all’ombra del «Grande Vecchio»; da una parte, c’è l’eminente uomo di cultura, magari legato ad ambienti diversi da quelli del terrorismo, ex partigiano, intellettuale fortemente deluso dalla mancata rivoluzione comunista promessa e rinviata sine die; dall’altra, il professore universitario che orbita attorno al mondo dell’eversione: Una figura, la seconda, indicata come ben addentro alle cose dello Stato. Leonardo Sciascia, durante i lavori della prima Commissione Moro, lo desçrisse come un «camaleonte; credo che sia difficile ma non impossibile smascherarlo». Nel tempo, tale figura è stata più volte ripresa e arricchita fino a delineare una vera è propria struttura esterna di comando e responsabilità politica dell’operazione militare connessa al rapimento Moro. Punto di raccordo tra le due articolazioni, quella operativa e quella di direzione politica «esterna», è, per unanime valutazione, Mario Moretti. Di lui, Valerio Morucci dirà: «Era l’esponente più brillante delle BR ma era anche ostaggio degli altri». Chi sono questi «altri»? Aggiungerà Morucci durante il quarto processo Moro: «Io sono un dissociato. Posso parlare di fatti di cui rispondo personalmente e non di quelli degli altri». I vertici delle BR «hanno le loro responsabilità: hanno affermato che è stato detto tutto e non è vero. I dirigenti erano dei deboli». A quali «dirigenti» si riferisce? Al capo Mario Moretti, al «duro» Prospero Gallinari, alla ristretta pattuglia di via Montalcini dove, secondo la tradizione ormai codificata, fu sempre tenuto il Presidente, o forse a qualcun altro che non abbiamo mai conosciuto? Un intellettuale o un gruppo d’intellettuali che si celano dietro una facciata di rispettabilità? «Lauro  Azzolini [uno dei componenti dell’organismo dirigente BR riunito permanentemente a Firenze per guidare il rapimento nel 1978, N.d.A.] me lo descrisse – raccontò l’ex senatore del PCI Sergio Flamigni nel 1985 – come estremamente intelligente e colto. Una mente lucida. Quando però lo interrogano, Azzolini nega tutto. Comunque il capo BR mi descrisse quel quarto uomo (presente nella prigione BR di Via Montalcini insieme alla Braghetti, Moretti e Gallinari) in modo tale da far pensare a una mente strategica». Peccato che questa «mente strategica» sarà identificata dalle stesse BR anni dopo con il falegname di Centocelle – borgata simbolo della estrema periferia romana – Germano Maccari. È veramente lui il grande intellettuale? Che dire poi del fatto che Francesco Cossiga, poco dopo le dimissioni da Ministro dell’Interno, nel maggio del 1978, e nonostante le dichiarazioni  delle BR, se ne andasse in giro a parlare  di un   intellettuale, «fiancheggiatore» brigatista, abilitato a raggiungere nel carcere Aldo Moro? Cossiga aveva espresso questa opinione in una conversazione privata, convinzione a  caldo  dell’ex  Ministro  era che si potesse disegnare un identikit dell’interlocutore privilegiato di Moro  prigioniero,  aderente  a questi  elementi  fondamentali:  “Cultura e probabilmente incarico di docente universitario. Appropriate conoscenze della politica italiana in tutti i suoi risvolti o almeno i più significativi, ivi compresi quelli attinenti a impegni più propriamente di governo. Età medio-adulta, dato che per taluni passaggi storici mostra di saper reggere una conversazione sulla base di esperienze non ricavate da letture ma in qualche modo vissute direttamente”. Giulio Andreotti non ha mai negato nettamente l’esistenza di questa figura.  Afferma  Roberto  Sandalo,  il primo grande pentito della formazione terroristica Prima Linea di uno scenario di menzogne vasto, consolidato, condiviso da ex terroristi e fiancheggiatori, e avallato dallo Stato: politici e magistrati, tanto per essere chiari. «C’è un muro di omertà sul passato di quegli anni che nessuno vuole rompere perché verrebbe miseramente coinvolto nel crollo. Ci sono verità storiche che nessuno vuole raccontare. Ci sono dei misteri che nessuno vuole svelare. Sarebbero troppo scomodi alla nuova classe dirigente». Oscar Luigi Scalfaro, alla vigilia della scadenza del mandato presidenziale, lancia un monito che riprende esattamente le parole del giornalista Mino Pecorelli, assassinato nel marzo del 1979 dopo una lunga campagna stampa che aveva svelato molti retroscena della vicenda Moro non coincidenti con la versione ufficiale uscita dai Tribunali. Nella grande cornice di Montecitorio, presenti tutti i Parlamentari della Repubblica, ma assenti i due grandi protagonisti politici di questa vicenda -Giulio Andreotti, all’epoca ancora sotto processo per mafia e per l’omicidio Pecorelli, e Francesco Cossiga, impegnato in una contorta e spesso contraddittoria battaglia per la legittimazione politica e morale del ruolo da lui svolto durante i cinquantacinque giorni del sequestro – Scalfaro parla per venti minuti ricordando Aldo Moro. Una frase cade come una staffilata sulla platea oltremodo silenziosa: «Una successione di processi è riuscita a raggiungere i responsabili dell’orrendo crimine. Ma le intelligenze criminose che scelsero, mirarono e centrarono il bersaglio, in quel momento politico essenziale, sono comprese in questi processi? E se no, a quale Giudice risponderanno? Eppure ne risponderanno». A stilare il profilo di questo personaggio, che rimarrà costante nei tratti essenziali pur essendo via via arricchito di dettagli, è proprio colui che è stato definito «l’uomo della CIA»,cioè Steve Pieczenik (prima citato), che, però, non era propriamente un agente segreto quanto piuttosto un componente di alto grado del Governo americano: Deputy Assistant Secretary of State, ossia la terza carica del Dipartimento di Stato, con una delega molto ampia per le questioni di terrorismo e di crisis management. L’allora trentaquattrenne Pieczenik venne  in Italia  per  attuare «un  certo numero  di strategie e di tattiche molto sofisticate» per l’epoca, perché, di fatto, l’«Amerikano» guidava la prima struttura antiterrorismo del mondo. L’unico ostaggio non americano di cui si è interessato nella sua carriera di mediatore è proprio Aldo Moro. A creare la struttura antiterrorismo e a porre Pieczenik alla sua testa fu lo stesso Kissinger, il politico che aveva osteggiato la politica di Moro in tutti i modi, minacce comprese. Lo schema che, secondo Pieczenik, si doveva contrastare era quello sotteso alle stragi italiane, perché le finalità strategiche delle iniziative delle BR «consistevano nella creazione dei presupposti di una guerra civile mediante la provocazione di misure repressive». Pieczenik, negli anni, ha rivelato parecchi retroscena del sequestro. Il meno recepito in Italia è il seguente: dopo aver constatato che non c’era la volontà politica di salvare Aldo Moro, il mediatore americano decise di tornarsene negli USA prima del tempo. Il Presidente della DC avrebbe potuto essere restituito alla vita politica, ma ai suoi danni fu messo in atto «un complotto ad altissimo livello» il cui obiettivo finale era proprio far sì che egli «non venisse liberato», come ha ripetutamente  spiegato Pieczenik nei suoi interventi pubblici.  Dunque,ci fu un complotto degli italiani contro Moro. Questo è l’aspetto più spiazzante e interessante. Pieczenik insiste molto sul complotto degli italiani, quasi a voler suggerire che, dovendo scegliere tra la vita dell’ostaggio e il rischio che la DC e di conseguenza gli Stati Uniti perdessero la guida dell’Italia, egli, giocoforza, si risolse per costringere le BR a uccidere Moro. In quella terribile partita a  scacchi,  furono fatte tutte le mosse  necessarie «ad avere un controllo quasi completo sullo scacchiere […]. Se i comunisti fossero arrivati al potere e la DC avesse perso, si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione e gli americani avevano un preciso interesse in merito alla sicurezza nazionale». L’Amerikano drammatizza molto la situazione che trovò a Roma: “Cossiga mi confessò che aveva problemi con i suoi Servizi segreti, che le sue Forze dell’Ordine, Polizia e Carabinieri, erano inefficienti e che, naturalmente, non c’era nessuna traccia dei terroristi. Mi fornì un quadro terribile  della situazione”.

Concludendo, tornando al Belpaese, c’è chi invoca demenzialmente  ancora oggi  una generale sanatoria sugli anni di piombo, idea vagheggiata autorevolmente in recente passato anche da importanti ambiti politici; ma noi, da liberi Cittadini e liberi pensatori, diciamo invece a chiare lettere che non si può chiudere questo tragico capitolo dal quale sono iniziati i grandi disastri della politica nostrana se tutta la verità non solo processuale ma anche storica non sia stata acquisita!

Certamente, alla luce di ciò, l’ennesimo Processo Moro, se ci sarà, unitamente ai lavori della nuova Commissione Parlamentare, molto ben guidata dall’ On. Giuseppe Fioroni,  dovranno chiarire molti, moltissimi inquietanti aspetti. Lo si deve agli Italiani!

Exit mobile version