Politica

DA “ROMANZO DI UNA STRAGE” ALLE VERITÀ INDICIBILI

A commento del film “romanzo di una strage”, con spunti di riflessione sulle “verita’ indicibili” di terrorismo e altro.

Mario Calabresi, figlio del Commissario di PS, ucciso per mano di sicari telecomandati dai famigerati cattivi maestri che hanno avvelenato le coscienze dei giovani negli anni di piombo, ha visto il film di Marco Tullio Giordana, “Romanzo di una strage”, e confida ad Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, le proprie riflessioni.
“È un film importante per ricordare quel che è stata Piazza Fontana, era necessario un omaggio alla memoria e a tutte le vittime: i morti della strage; Giuseppe Pinelli (l’anarchico caduto dalla finestra della Questura di Milano nel corso di interrogatorio); mio padre; e l’ultima vittima, la Giustizia. Non è un film buonista, non edulcora la realtà, anzi ha il pregio di mostrare che Pinelli e mio padre facevano due mestieri diversi, erano persone agli antipodi; ma non erano nemici”. 
Il film pare avanzare l’ipotesi che la responsabilità di quei gravissimi eventi sia dei corpi deviati dello Stato; mentre il figlio è convinto (giustamente!) che la verità giudiziaria coincida con la verità storica: “Se lo Stato ha una colpa, è aver lasciato mio padre solo, aver permesso che diventasse un simbolo”. Il film prende spunto dal libro del giornalista Paolo Cucchiarelli, “Il Segreto di Piazza Fontana” (Ponte alle Grazie, 2009), che presenta il limite di citare numerose fonti anonime non riscontrabili, collegate al neofascismo e ai Servizi più o meno deviati. Non un lavoro elaborato con metodo storico e scientifico,quindi, su fonti certe e documenti, ma solo un libro interessante scritto da un bravo giornalista.
Cerchiamo di ripercorrere, con moderato spirito critico, talune parti del film.
Vediamo, così, il veneto Lorenzon che riferisce ai Magistrati delle confidenze dell’amico Giovanni Ventura, editore di Castelfranco Veneto, collegato agli ambienti veneti del neofascismo eversivo. Da quelle deposizioni, il grande Pubblico Ministero Pietro Calogero (oggi meritatamente Procuratore Generale della Repubblica di Venezia), arrivò a Franco Freda e al giornalista al soldo dei Servizi, Guido Giannettini, chiudendo così la pista anarchica seguita nell’immediatezza. Il 3 marzo 1972 i due neofascisti furono arrestati e nel 1979 la Corte d’Assise di Catanzaro (la Cassazione trasferì in quel capoluogo il processo per motivi di sicurezza) li condannò unitamente a Giannettini all’ergastolo. Una storia processuale articolata e sofferta, della quale il film non fa cenno. In appello, gli imputati vennero assolti per Piazza Fontana e giudicati responsabili soltanto del reato di associazione sovversiva, ma nel 1982 la Cassazione annullò tutto, rimettendo l’intera inchiesta alla Corte d’Assise d’Appello di Bari, che confermò le assoluzioni per insufficienza di prove.
Unica certezza:l’ordigno fu confezionato dall’ordinovista Carlo Digilio. Alla fine dell’ennesimo e fortunatamente ultimo processo, nel 2005, la Cassazione, su altro filone di indagini, assolse i neofascisti veneziani Zorzi, Maggi e Rognoni, sancendo, nella sentenza, le responsabilità di Freda e Ventura per la strage, i quali, però, non risultarono più imputabili in considerazione                     dell’ assoluzione definitiva del 1982.
Riguardo al ruolo dei Servizi, in verità non lineare (ci furono infatti condanne per il Generale Maletti e Capitano Labruna; il primo tuttora latita in Sudamerica per sfuggire ad esecuzione di sentenze definitive), va detto che il giornalista infiltrato Giannettini, in libro-paga SID, fu autore di due relazioni, redatte nel maggio 1969, che rivelavano la conoscenza da parte dei Servizi della possibilità di attentati terroristici da parte di elementi della destra oltranzista, sostenuti da gruppi industriali del nord, con il benestare di ambiti internazionali non meglio indicati. Nel film, si fa anche riferimento, per lumeggiare il clima di violenza dell’epoca, al povero poco più che ventenne Agente di PS Antonio Annarumma, ucciso a Milano il 19 novembre del 1969, con il cranio fracassato da un tubo innocenti, lanciatogli contro da un dimostrante durante una manifestazione per la casa, degenerata in violenti scontri con la Polizia, mentre sono capziosamente raccontate le circostanze di indagini parallele dell’Arma dei Carabinieri sulla strage, in contemporaneità di quelle della Questura di Milano, condotte dal bravo Calabresi. Quelle dell’Arma, poi, non si sa per quale motivo, sarebbero state dirette da un alto ufficiale che, per modi e comportamenti, lascia presumere trattarsi di appartenente a staff di Vertice di Roma.
Nulla di più errato! Cosa si vorrebbe insinuare?
A questo punto, è bene ricordarlo, che gli apparati dello Stato in divisa, cioè Carabinieri e Polizia, come sempre, furono fedeli al giuramento di fedeltà alla Repubblica, sia nelle indagini, sia nelle strade, ambito questo dove ebbero i nervi molto, ma molto ben saldi, nell’ interesse generale; sono stati certamente l’unico presidio di legalità a tutela dei Cittadini e, con il Loro comportamento vigile e consapevole, hanno evitato più volte l’insorgere di situazioni che avrebbero portato alla guerra civile, tanto auspicata da intellettualoidi in pantofole, con scaldino ai piedi, però al soldo della Russia e di altri miserandi ambiti politici.
Di questa tempra erano i nostri Tutori della Legge, come lo sono ancora oggi; altro che servi dei padroni!
Chi lo ha detto o lo dice ancora , è un emerito imbecille in malafede!
Non viene, invece, nel film (tranne l’apparizione di qualche scritta murale nei pressi dell’abitazione del Commissario), fatto alcun riferimento (come ampiamente rappresentato da chi scrive nell’ articolo del 25 gennaio di quest’anno, dal titolo: “LA LIBERAZIONE DI ADRIANO SOFRI”, pubblicato su questa illustre testata che si ispira nobilmente ai valori di libertà e democrazia del grande storico pugliese Gaetano Salvemini) al clima di odio scatenato dagli intellettuali nei modi più violenti , con iniziative quale la lettera pubblicata su ”L’ Espresso”, firmata da 800 “acculturati”, di cui alcuni, ma solo alcuni, chiesero poi tardivamente scusa. 
Vediamo, ancora, continuando, che Aldo Moro viene raffigurato come fermo oppositore di ogni deriva antidemocratica, e su questo riteniamo di concordare; ma,nonostante ciò, sarebbe stato proprio Lui, sempre nella ricostruzione di Giordana, a insabbiare per primo la ricerca della verità, seppure per superiori ragioni del Paese. In sintesi: Moro si adoperò perché (più che giustamente) non fosse dichiarato lo stato d’emergenza (come auspicato da oscuri ambiti) e non venissero ristrette le garanzie costituzionali, per cui riferì al Capo dello Stato, Saragat, le sue conclusioni, che lo avevano portato alla determinazione del convincimento che non solo era di matrice fascista la strage, ma soprattutto in ordine alle connivenze degli apparati dello Stato. Moro, addirittura, sembrò ritenere che il Paese non potesse sostenere la verità, e per questo scelse il silenzio.
Tesi discutibile e azzardata, perché scarica le responsabilità maggiori su apparati dello Stato. La verità, invece, è quella che vede Moro essere l’unico tra i politici di allora, con grande lungimiranza, durante la contestazione studentesca del 1969, che si andò poi a saldare con le lotte operaie per il rinnovo dei contratti dell’autunno caldo, ad intuire che le aspettative dei giovani non andavano tradite, anche per i pericoli di quelle derive che poi si sarebbero verificate (e delle quali alcuni anni dopo avrebbe personalmente pagato le conseguenze!), auspicando una seria politica sui diritti allo studio e per il lavoro. Nulla fu fatto, perché la politica ritenne di “cavalcare la tigre” della contestazione, come al solito, more italico, con toni minimalistici, almeno per quanto concerne il pianeta giovani, con il voto “politico” all’Università ( uno studente si presentava all’esame e dieci prendevano il voto) e poche altre “minutaglie”demagogiche. E tutto questo nel delirio ideologico degli slogan : “Ne’ Dio , ne’ Patria, ne’ padroni”(come da esaltati, urlato da studenti all’ interno dell’Università di Roma, guidati dal tristo “autonomo” Daniele Pifano); ovvero, l’altra bestialità: ” Gli operai sulle cattedre!”. Per la cronaca, il Pifano, dieci anni dopo, parcheggiò un furgone con missili proprio all’ interno del Policlinico Universitario.
Per il mondo operaio, invece, più forte contrattualmente dell’altro, cioè quello studentesco, si giunse all’importante e sacrosanto “Statuto dei Lavoratori” e a quell’art.18, oggi oggetto di ampia discussione politica.
Citando Aldo Moro, torna alla mente di tutti l’altra tragedia nazionale, quella del Suo sequestro e uccisione, dove di verità indicibili ce ne sono molte. All’ estero, come si legge nel recente libro ” Intrigo Internazionale” del Giudice Rosario Priore, intervistato da Giovanni Fasanella, Chiarelettere Editore, si sapeva del sequestro diverse settimane prima del suo compimento. Anche in Italia, ovviamente, si sapeva, tanto che l’ emittente “ultrarossa” Radio Citta’ Futura ne dette l’ annuncio pochi minuti prima dell’ agguato. A via Fani, poi, all’ ora del sequestro, c’era un uomo dei Servizi cosiddetti Segreti….Non è stata ,poi, fatta luce sui canali di andata e ritorno delle lettere tra Moro e i suoi interlocutori esterni. Ancora, non si conosce il numero delle prigioni ; chi abbia interrogato lo Statista, nè chi abbia preparato le domande da porgli; dove siano custoditi i materiali del “processo”. Non si sa in quale casa “nobiliare” fiorentina si riunisse la Direzione Strategica delle B.R., nè è dato conoscere, ancora, chi abbia avuto la responsabilità della gestione politica del gravissimo evento, come chi abbia condotte le trattative per la liberazione dell’ eminente uomo politico. Altra domanda: chi teneva la “cassa” dei terroristi che avevano conti anche in Banche svizzere…?
Tanti gli interrogativi. Si scivolava, così, dopo i fatti di Piazza Fontana del 1969, verso anni ancora più bui, tanto che di lì a poco ci fu il tentativo del colpo di stato del Principe Nero Junio Valerio Borghese e, nel 1974, le stragi dell’Italicus e di Piazza della Loggia a Brescia (quest’ultima, con ennesimo processo ancora in corso).
Fu golpe da Operetta, quello? Solo il buon Dio lo sa.
Torniamo, anche qui, alle “Verità Indicibili”, gloria ingloriosa di questa nostra strana Repubblica.
La Corte d’Assise di Roma escluse che il piano avesse carattere nazionale”, mentre il golpe venne definito come un atto “iscritto in un disegno lucido” ma “velleitario”, nonostante esponenti di Avanguardia Nazionale fossero penetrati, con ovvie complicità, addirittura fin dentro il Ministero degli Interni, impossessandosi di 200 mitra nel corpo di guardia, e truppe da fuori confluissero in armi nella Capitale. La Corte d’Assise d’Appello, nel novembre 1984, assolse comunque definitivamente tutti da ogni accusa. Nel marzo 1986, la Suprema Corte confermò definitivamente l’assoluzione generale. Per la giustizia, il golpe Borghese non era mai avvenuto.
Non si può non concludere questa carrellata, in verità tanto ma tanto triste, anche per chi scrive queste note, perché si argomenta di vere e proprie sconfitte dello Stato nel perseguimento della Verità Vera, con un doveroso commosso omaggio a tutte le vittime dei terrorismi e delle mafie di ogni tempo e luogo, con particolare riguardo alle diciassette vittime innocenti della strage di Piazza Fontana, il cui ricordo si è riacceso, oggi, grazie a un film di cassetta.
 
 
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