Politica

La verità ufficiale sulle stragi mafiose del 1992 non regge…

Roma, 22 maggio 2019 – “La verità ufficiale sulle stragi mafiose del 1992 non regge“. Lo sostiene il Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato che oggi 22 maggio, sul Fatto Quotidiano, racconta come “la narrazione semplificata è messa a dura prova da verità che vanno oltre il livello mafioso”. “Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio” – dice Scarpinato. La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico consegni alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché uomini simbolo di uno Stato che con le condanne inflitte con il maxiprocesso aveva sferrato un colpo mortale a Cosa nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità”. “I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati – spiega – hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Riina, Provenzano, di altri personaggi di tale fatta”. “A tutti furono taciute le causali esterne di quella campagna stragista – prosegue – in parte coincidenti con gli interessi dell’organizzazione, in parte invece talmente divergenti da alimentare progressivamente in taluni capi e persino negli esecutori, la certezza che Riina e i suoi fedelissimi, tra i quali i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, componenti di quelli che Riina aveva definito la ‘Super Cosa’, non dicevano tutta la verità”. Il Magistrato ricorda i collaboratori di giustizia che non “hanno mai riferito alcunché delle riunioni che nel 1991 si svolsero nelle campagne di Enna e nel corso delle quali i massimi vertici regionali della mafia discussero dell’attuazione di un complesso piano di destabilizzazione politica suggerito da entità esterne”. Citata anche la sentenza del Borsellino ‘quater’. La Corte d’assise ha appurato che le “dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Scarpinato si interroga sulle “eventuali finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”. “Interrogativi ancora senza risposta – conclude Scarpinato – e che forse possono spiegare anche il pervicace silenzio mantenuto dai fratelli Graviano sui segreti delle stragi che coinvolgono centri di potere rimasti temibili e la straordinaria longevità della latitanza di Messina Denaro..”.

Sin qui le autorevoli argomentazioni in verità inquietanti del Magistrato… Ora un passo, anzi due passi indietro…

Quattro anni di lavorazione, un finanziamento statale negato anche come film “d’interesse culturale”. Polemica anche per la locandina ufficiale del film: un uomo con la lupara al centro dello stemma della Repubblica Italiana. Alla fine però il film “La Trattativa” è stato realizzato presentato fuori concorso al Festival di Venezia. “Che cos’è la trattativa, quello che ci hanno detto i mafiosi?- si chiedeva la regista Sabina Guzzanti- o è quello che non ci hanno detto gli uomini politici?” Certamente è stato un film da vedere…..Sulla cosiddetta trattativa tanto si è scritto e si continua a scrivere.., ma uno dei libri sicuramente più interessanti per le sue argomentazioni è: “La mafia non ha vinto” (edito da Laterza, febbraio 2014, pagg.161) di Giovanni Fiandaca, noto docente di Diritto Penale, e Salvatore Lupo, Docente di Storia Moderna, entrambi cattedratici nell’Università di Palermo. Il libro cerca di dimostrare che Cosa nostra non è stata salvata, mentre i più sostengono che c’è stata una resa. Dove la verità?
Nel saggio, Fiandaca scrive che “Il Giudice e lo storico anche quando indagano sulle medesime materie sono portati a impiegare – a causa della diversità del mestiere – criteri di giudizio in parte comuni, in parte divergenti”. Quindi, Fiandaca sancisce la tesi dell’inaccettabilità etico-politica di una trattativa Stato-mafia che è smentita dalla storia; trattare con la mafia non può essere reato… Andrebbe, poi, analizzato “…se e fino a che punto sia compatibile con i principi di un moderno Stato di diritto che la giustizia penale si atteggi in qualche misura a “giustizia di emozioni” sotto la prevalente angolazione della opinione pubblica e/o delle vittime dirette”. Fiandaca non risparmia critiche alle associazioni antimafia quali le “Agende Rosse” che “fideisticamente” sostengono i Magistrati. C’è poi da dire che Fiandaca ha una tesi che possiamo definire singolare, in quanto sarebbe “….verosimile che l’inclinazione giudiziaria a rileggere gli anni ’92-’94 alla luce dell’influenza esercitata dai poteri criminali rifletta una tendenza semplificatrice, dovuta all’ottica professionale, in qualche misura deformante, della Magistratura impegnata nel contrasto alla criminalità mafiosa”. L’autore, poi, analizza, da raffinato giurista, se (pag.71) “l’ipotesi criminosa escogitata, cioè quella di violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato (art.338 CP) si presti al perseguito obiettivo di coniugare condanna etico-politica e condanna penale ….Per punire un fatto non basta disapprovarlo, ma occorre individuare una legge che lo configuri espressamente come reato”. Infatti, il reato di “trattativa”, non è contemplato nel vigente Codice Penale. A pag. 91, l’autore dichiara che (nei governi berlusconiani) “nessun colpo demolitore è stato inferto alla legislazione antimafia (anzi, è stata addirittura inasprita la disciplina legislativa del sequestro e della confisca dei beni…..(tanto che è stato)….emanato il nuovo Codice Antimafia del 2011 e, inoltre, non è stato per nulla impedito alla Magistratura di…..”
Su questo punto ci permettiamo sommessamente di contraddire il Prof. Fiandaca in quanto l’allora legge antimafia voluta dal Guardasigilli Angelino Alfano, per quel che concerne i beni mafiosi, fissava un limite al tempo, che poteva passare tra il sequestro e la confisca, di ben 18 mesi, con due possibili proroghe di sei mesi, con richiesta motivata del Tribunale. Certo, come argomentato da altri autorevoli ambiti, il limite dei due anni e mezzo è troppo breve….Sappiamo che le indagini patrimoniali sono complesse, soprattutto se parte delle ricchezze è nascosta all’estero. A titolo di cronaca, va anche ricordato che dalle relazioni della Corte dei Conti, si è evinto che oltre la metà dei beni confiscati resta inutilizzata per la lentezza delle procedure e che, dal momento del sequestro, servono ancora tra i 7 e i 10 anni per giungere alla confisca definitiva dei beni e al loro successivo riutilizzo.
Quindi, se qualcosa andava fatto, era quella di accelerare, non già di ritardare la procedura! Su quest’aspetto l’attuale compagine politica sta lavorando…
Un libro per tutti è invece il “Manifesto dell’Antimafia” di Nando dalla Chiesa (Casa Editrice Einaudi, marzo 2014, pagg.116) nel quale con stile leggero e piacevole l’ autore dichiara che la mafia non è né misteriosa né invincibile e, “…..da quando è passata l’ondata emotiva delle stragi (pag.91) del 1992-93….la politica italiana si è ritirata e non ha più avvertito come un dovere assoluto la lotta alla mafia… Come ho cercato di documentare altrove, il centrosinistra dei quattro Governi in cinque anni (1996-2001) ha progressivamente smontato il precedente clima di mobilitazione e d’impegno istituzionale, delegando l’azione dello Stato alle migliori risorse umane e organizzative delle Forze dell’Ordine e della Magistratura….ed ha pacificamente osservato l’espansione delle associazioni mafiose nelle regioni del Nord….
Non diversamente è andata nel decennio successivo in cui lo spirito di legalità ha subito ferite profonde a causa del primato metodologico assegnato ai problemi giudiziari di Berlusconi con tutto quello che ne è conseguito: abolizione o depotenziamento dei reati, delegittimazione della Giustizia anche sul piano costituzionale, il sabotaggio del processo, l’abbassamento della soglia di liceità morale..”aggiungo la tremenda Legge Cirielli del 2005 sulla prescrizione…”sine die..”
Abbiamo riferito nel tempo di ampio dibattito, sia scritto, sia verbale, sulla nota trattativa Stato Mafia, oggi arricchito anche da un film…….Bene!
Quel che lamentiamo da cronisti liberi pensatori è che sia passato sottotono (chissà perché?) un libro autobiografico scritto da un autorevolissimo Uomo di Stato, della statura di Carlo Azeglio Ciampi, insieme ad Arrigo Levi, dal titolo : “Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano” (Editore: Il Mulino 2010, 14,00 euro, Pagg. 192). Racconta Ciampi: “Non c’è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c’è dietro le stragi del ’92 e ’93? Chi c’è dietro le bombe contro il mio Governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta…..Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio (1993), avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio Segretario Generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l’esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse “Carlo, non capisco cosa sta succedendo…, ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi…… So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all’una e un quarto di notte, convocai un Consiglio Supremo di Difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi “Presidente, dobbiamo reagire… resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte. …E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe? ….Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell’epoca… “ “Deve restare memoria, di tutto questo, certamente. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità…Perché senza verità – conclude l’ex Presidente della Repubblica – non c’è democrazia”.
Non aggiungiamo altro; quel che narra Ciampi è più che illuminante sui pericoli che correva l’Italia in quegli anni…… sono fatti esposti da un protagonista della storia repubblicana di intemerata coscienza, altissimo senso dello Stato e ammirevole dirittura morale (oggi inesistente nella classe politica degli ultimi anni).
Che dire a questo punto? Nulla, in attesa di un domani migliore..per figli e nipoti...

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