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Germania 2025: la crisi peggiore dal 1949 e il fallimento del Green

Era dal 1949 che la Germania non faceva i conti con una crisi così profonda: dall'automotive alle bollette energetiche, sono dolori per le industrie tedesche

Aleggiano i fantasmi sulla Germania green: il presidente della Confindustria tedesca teme la deindustrializzazione irreversibile definendo questa crisi la peggiore dal 1949. Dopo anni di governo con politiche incentrate sul verde, adesso si tirano le somme con risultati molto preoccupanti. Il vertice dell’organizzazione di categoria degli industriali ha dichiarato che i campanelli d’allarme devono suonare, perché il clima delle imprese nel Paese è “estremamente negativo, in parte addirittura aggressivo e le aziende sono profondamente deluse”. Queste le parole del presidente della Bdi (l’omologa della Confindustria tedesca) Peter Leibinger ai microfoni della Süddeutsche Zeitung il 15 dicembre 2025.

Perché il sistema tedesco sta crollando e si va verso la deindustrializzazione

Ma cosa intende il capo degli imprenditori quando parla di clima aggressivo? Il problema è che, in assenza di futuro, qualsiasi rapporto si deteriora. Ci si indirizza verso un abbrutimento generalizzato. Il rischio, spiega Leibinger, è la deindustrializzazione irreversibile. Ecco le cause.

  • Crisi dell’Auto: la pressione della Cina e le politiche UE hanno frenato il settore. La crisi dell’automotive è dovuta alle politiche sbagliate dell’UE (che ora è in retromarcia tardiva). Il settore, che pesa per circa il 5% del PIL tedesco ed è uno dei pilastri dell’industria nazionale, è sempre più sotto pressione per l’avanzata della Cina. Pechino ha progressivamente sottratto quote di mercato ai costruttori tedeschi sia nel Celeste Impero sia in Europa.
  • Shock Energetico: non comprando più il gas a basso costo da Mosca per volere dell’UE, sono dolori: bollette astronomiche, aziende non competitive. Specie in terra teutonica dove le industrie sono iper energivore. Dopo l’addio al gas russo a basso costo, i prezzi dell’energia restano strutturalmente più elevati rispetto al periodo pre-2022, erodendo la competitività dell’industria manifatturiera tedesca, in particolare nei comparti chimico, siderurgico e automotive.
  • Pressione Fiscale: le prospettive fiscali in deterioramento pesano sui profitti delle imprese tedesche. Tasse spesso finite in progetti rivelatisi fallimentari anche sotto il profilo sociale.
  • Spese Militari: a questo si aggiunge l’aumento della spesa militare (in prospettiva contro un’ipotetica invasione russa), che Berlino ha portato stabilmente verso l’obiettivo Nato del 2% del PIL, con un impegno annuo di decine di miliardi di euro.

La transizione ecologica è diventata un cappio per il Mittelstand

Anzitutto concretezza e praticità, a partire dall’automotive. In questo scenario di tempesta perfetta, la Germania si trova di fronte a un bivio identitario che mette in discussione il paradigma stesso della Locomotiva d’Europa. La transizione ecologica, un tempo vessillo della modernità e della leadership morale tedesca, si è trasformata in un cappio economico intrappolato tra l’esigenza di una difesa militare sempre più costosa e l’utopia di una transizione energetica che, pur nobile negli intenti, sta desertificando il paesaggio industriale, l’ossatura produttiva del Paese. Il grido d’allarme di Leibinger non è solo una critica tecnica alle politiche energetiche, ma la constatazione di un fallimento strutturale: il tentativo di trasformare l’economia più industrializzata del continente in un laboratorio green senza aver prima messo in sicurezza i costi di approvvigionamento e le catene del valore.

La crisi che investe il settore auto è allarmante: licenziamenti e chiusure di fabbriche dell'auto.
La crisi che investe il settore auto è allarmante licenziamenti e chiusure di fabbriche dellauto

Il risultato è un’erosione della fiducia che sconfina nel risentimento sociale. Quando si parla di “clima aggressivo”, ci si riferisce alla fine della concertazione sociale, quel modello di dialogo tra sindacati, imprese e Stato che ha garantito stabilità per decenni. Oggi, con le fabbriche che chiudono o delocalizzano verso gli Stati Uniti e la Cina, quel patto è infranto. Le aziende non percepiscono più lo Stato come un alleato che facilita l’innovazione, ma come un ente burocratico che impone costi insostenibili in nome di un’ideologia climatica percepita come slegata dalla realtà competitiva globale. La deindustrializzazione non è più un timore teorico, ma un processo tangibile che si manifesta nel declino degli ordini e nell’incapacità di trattenere i talenti e i capitali all’interno dei confini nazionali.

Oltre l’ideologia: la ricetta per evitare il declino definitivo

La Germania è cosi costretta a riconoscere che il “miracolo economico” basato sull‘energia russa a basso costo e sull’export illimitato verso la Cina è giunto al capolinea. Senza un cambio di rotta radicale che preveda un abbattimento dei costi energetici, una semplificazione fiscale e una protezione strategica dei settori chiave, il rischio è che il Modello Germania diventi un capitolo dei libri di storia.
E la sfida per il governo federale e per l’intera Unione Europea è ora quella di evitare che il cuore manifatturiero del continente si fermi definitivamente, trascinando con sé l’intero progetto di integrazione economica europea. Se il cuore industriale dell’Europa smette di battere, le onde d’urto non si fermeranno al Brennero, ma colpiranno l’intero progetto dell’Unione Europea, la cui stabilità economica è da sempre legata a doppio filo alla salute della locomotiva tedesca.

Non è più il tempo delle utopie energetiche scollegate dalla realtà produttiva. La sfida per il governo federale è ora quella di trasformare questo allarme nel punto di partenza per un nuovo pragmatismo: una transizione che sia davvero sostenibile, non solo per l’ambiente, ma anche per i bilanci delle aziende e le tasche dei cittadini.

Il rischio è che, continuando a inseguire obiettivi ideologici senza una strategia industriale solida, la “Germania green” finisca per essere ricordata come il deserto industriale più ambizioso della storia moderna.

Giovanni Mancini

Ingegnere, pilota, giornalista appassionato da sempre di auto e motori. E' direttore responsabile delle testate giornalistiche NEWSAUTO.it, Elaborare, Elaborare 4x4 ed Elaborare Classic, pubblicazioni da oltre 20 anni riferimento dei "car enthusiast", appassionati di tecnica motoristica, performances e guida sportiva. Nell'anno 2004 ha conseguito il titolo di Campione Italiano nel Campionato Velocità Turismo nelle gare in pista. Tra le tante auto speciali provate: la Mazda 787B vincitrice della 24H di Le Mans nel 1991.