La leggenda di Jesse Owens.

A proposito di Olimpiadi le vicende di Berlino 1936.

Roma, 3 agosto 2021.

 

Nello sport ci sono personaggi che diventano leggenda appena compiuta una determinata impresa sportiva, senza aspettare riconoscimenti postumi.

Ottantacinque anni fa a Berlino, nella Germania del Terzo Reich, si svolge la 10° edizione dell’Olimpiade moderna, occasione storica per la propaganda nazista.

Il quotidiano <der Angreifer>, gestito in prima persona dal potentissimo Goebels, definisce ausiliari gli atleti di colore della rappresentativa Usa, generando stupore e malcontento negli stessi.

James Cleveland Owens, per tutti Jesse, l’antilope d’ebano, risponde sul campo, insieme ai suoi compagni, a un razzismo più subdolo rispetto a quello subito nel proprio Paese.

Un razzismo basato sulla follia della superiorità della razza ariana, che di lì a pochi anni porta l’Europa verso un’immane tragedia.

Esattamente il 3 agosto 1936 Owens, nelle prime ore del pomeriggio, vince la semifinale dei 100 metri piani di atletica leggera e alle ore 17 è pronto ai blocchi per la finale.

A dire il vero negli anni trenta i blocchi di partenza non esistono ancora e i velocisti devono scavare nel terreno due piccole buche, all’interno delle quali infilare i piedi per darsi la spinta in avvio.

Allo sparo Owens impone la sua partenza bruciante, resiste sul rettilineo e vince davanti al connazionale Metcalfe.

Hitler, visibilmente infastidito, approfitta di un provvidenziale acquazzone per sfilarsi dalla tribuna dell’Olympiastadion senza complimentarsi col nero Owens.

Con altri vincitori, di altre gare, il Fuhrer si congratula ma stringere la mano ad un esemplare di quella che il regime nazista considera una razza inferiore è troppo per lui.

Ad essere precisi l’antilope d’ebano vive un’intera settimana di gloria, dal 2 al 9 agosto, vincendo oltre ai 100 anche i 200 metri, il salto in lungo e la staffetta 4X100.

Quattro medaglie d’oro che vengono eguagliate 48 anni dopo a Los Angeles dal figlio del vento, Carl Lewis.

Il messaggio sportivo lanciato da Owens, amplificato dal contesto storico, è impreziosito dalla grande amicizia nata col suo rivale tedesco nella gara del salto in lungo.

Carl Ludwig, detto Luz, Long è in testa al quinto e penultimo salto della gara e Owens è stranamente contratto e abbondantemente sotto gli 8 metri, per lui misura abituale.

Long lo avvicina, lo tranquillizza, dandogli alcuni suggerimenti sulla rincorsa e lo stacco prima dell’asse di battuta.

L’ultimo salto è la zampata che si attendeva, planando a 8.06 l’antilope d’ebano centra l’ennesima medaglia d’oro e il primo a complimentarsi è proprio Long.

Il nero e l’ariano rimangono amici, un legame duraturo almeno fino a luglio del 1943 quando Long perde la vita in Sicilia vittima dell’assurdità del conflitto mondiale.

Owens lo viene a sapere e la commozione è tanta nel ricordare come < i rapporti nati in pista sono il vero ORO che non si corrode>.

Jesse Owens, nero dell’Alabama, che rovina le giornate delle sue gare ad Hitler vincendo ben quattro medaglie d’oro sotto i suoi occhi.

I Giochi di Berlino vengono esaltati da Leni Riefenstahl con il suo film Olympia, ma sono ricordati per le imprese di Owens.

Hitler era contrario ai Giochi, lo spirito olimpico contrastava con l’ideologia nazista di una razza superiore e dominante.

Gli ebrei invece vedevano nei Giochi uno strumento di pacificazione e di normalizzazione dei rapporti internazionali.

A distanza di anni e di successive manifestazioni Olimpiche il mito di Jesse Owens rimane immortale.

Senza però la presenza di Hitler, il senso e il significato delle quattro medaglie d’oro dell’antilope d’ebano risulterebbero prive di quel significato che supera la vittoria stessa.

 

 

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